Il “Washington Post” spiazza tutti: “Sì, Trump merita il Nobel per la Pace”

Donald Trump

Quando anche il Washington Post, baluardo del progressismo americano, scrive che Donald Trump merita il Nobel per la Pace, vuol dire che la storia ha appena fatto un’inversione a U. “Non c’è mai stato un presidente americano che lo meritasse di più”, si legge in un editoriale che ha spiazzato l’intero establishment liberal. Il riferimento, inevitabile, è a Barack Obama, premiato sette mesi dopo l’insediamento “essenzialmente per il fatto di non essere George W. Bush”, come scrive con sarcasmo il quotidiano di Jeff Bezos.

Trump, invece, un risultato lo ha portato a casa davvero: il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, frutto di settimane di contatti segreti e di un intervento personale che ha ribaltato il tavolo della diplomazia tradizionale. “Le sue telefonate e gli incontri – nota il Post – sono stati decisivi. Ha promesso di sostenere personalmente i punti dell’accordo, compreso non solo il cessate il fuoco ma anche il ritiro delle truppe e la gestione congiunta della Striscia”.

Non una pace formale, ma un armistizio che molti, fino a poche settimane fa, ritenevano impensabile. E che la Cnn, pur con malcelato fastidio, ha definito “un successo non scontato”. La rete liberal, che da anni racconta il tycoon come un pericolo pubblico, è stata costretta ad ammettere che “nessun altro leader occidentale aveva il potere di fermare la spirale”.

La svolta è arrivata quando Trump ha deciso di non interpretare il “sì, ma” di Hamas come un “no”. Ha sorvolato sulle condizioni e imposto il suo linguaggio brutale ma efficace: “Creeremo una situazione in cui le persone possano vivere a Gaza”. Parole che hanno irritato la diplomazia classica, ma che hanno funzionato. “Questo va oltre Gaza – ha detto – questa è la pace in Medio Oriente”.

Mentre in patria infuria il solito clima tossico – rivali politici indagati, lo shutdown alle porte, la Guardia nazionale schierata nelle città – il presidente incassa applausi trasversali. Persino alcuni senatori democratici hanno riconosciuto che “l’accordo è un passo vero verso la stabilità”.

Il Washington Post scrive che “Trump ha agito da imprenditore più che da politico, ma è proprio questa mentalità che ha spezzato il circolo vizioso di recriminazioni e veti incrociati”. In un solo passaggio, il giornale ammette ciò che fino a ieri era tabù: “Il suo cinismo è diventato pragmatismo”.

Nel frattempo, anche la Russia di Vladimir Putin fa sapere da Mosca che appoggerebbe la candidatura del presidente americano: “Se ce lo chiedessero, la sosterremmo subito”, ha dichiarato il consigliere presidenziale Yuri Ushakov. Poi, una stoccata velenosa a Kiev: “Un premio per la pace a chi fornisce armi è un’idea mostruosa. Trump almeno ha fermato una guerra, non ne ha iniziata un’altra”.

Un endorsement che suona come un paradosso geopolitico. Ma in questa stagione politica tutto è rovesciato: il presidente più divisivo della storia americana, accusato di populismo e autoritarismo, diventa per i suoi stessi detrattori l’unico capace di riportare stabilità nel Medio Oriente.

Anche Barack Obama, con eleganza, ha rotto il silenzio: nessun riferimento diretto, ma un tweet in cui invita a “lavorare per una pace duratura”. Tradotto: bravo Donald, anche se non lo dirò mai apertamente.

Nell’editoriale del Post c’è persino una punta di autoironia: “Forse il Comitato di Oslo non premierà un leader che ha insultato il mondo, ma quattro dei suoi predecessori hanno ricevuto il Nobel. Trump, a modo suo, ha fatto più di tutti”.

La sinistra americana, costretta a digerire la sconfitta diplomatica, si rifugia nelle sfumature: “È una tregua, non una pace”. Ma sa che, per milioni di elettori, il Nobel sarebbe la consacrazione definitiva del mito trumpiano. “Stavolta – ha detto il presidente sorridendo – non li chiamerò fake media”. E forse per una volta, anche a Washington, nessuno ha avuto voglia di contraddirlo.