La pace fra le macerie di Gaza: ecco cosa rimane dopo la firma

Gaza – aiuti

“Fecero il deserto e lo chiamarono pace”. Non è pace, e non è nemmeno tregua. È un deserto di macerie, dolore e silenzio. È lo sterminio lento e implacabile di un popolo — quello palestinese — a cui non si riconosce neppure il diritto di esistere.

Tacito scriveva: “Fecero il deserto e lo chiamarono pace”. Oggi Gaza è quel deserto: case distrutte, ospedali in rovina, scuole diventate rifugi, strade ridotte a cumuli di detriti. E nei resti, i corpi dei più deboli: migliaia di bambini, donne, anziani. Alcuni uccisi dalle bombe, altri dalla fame o dalle malattie causate dalla distruzione delle infrastrutture. Secondo dati ONU e organizzazioni umanitarie, decine di migliaia di civili sono già morti, e molte vittime sono minori — vittime dell’indifferenza e del vuoto politico.

Ecco un altro orrore silenzioso: le guerre generano profitti. Le stime sui costi della ricostruzione a Gaza parlano ora di decine di miliardi di dollari, forse 100,  necessari per ripristinare strade, reti idriche, ospedali, abitazioni. In questo scenario, entra in gioco una rete di imprese, contractor, investitori che attendono il momento per entrare in scena. Chi finanzia, chi costruisce, chi decide i meccanismi di controllo — questi attori possono determinare a chi spetteranno i benefici, con quali condizioni e a quali costi sociali.

Quando la ricostruzione viene gestita o condizionata da attori che hanno partecipato al conflitto, la domanda è legittima: chi trarrà davvero vantaggio da quei fondi? In che misura i residenti avranno voce in capitolo? E quanto rimarranno condizioni imposte da potenze esterne, magari interessate a plasmare la regione secondo i propri calcoli geopolitici? A poche giorni dalla firma del piano di pace che verrà siglato in Egitto — spinto da Stati Uniti e patrocinato da Israele — molti punti restano oscuri. Non prevede uno Stato palestinese né garanzie reali di autodeterminazione. Le fonti ufficiali parlano di “autonomia amministrativa” piuttosto che di vera sovranità. I confini, la demilitarizzazione, il ritorno dei profughi palestinesi sono elementi lasciati al futuro, senza calendari vincolanti.

In altri termini: si vuole simulare una pace — attraverso controlli, aiuti, progetti — ma non si vuole consegnare il potere, non si vuole riconoscere la sovranità di un popolo e la sua autodeterminazione. Si offre la ricostruzione come strumento di condizionamento, non come risarcimento di una dignità negata. Non è la prima volta che la popolazione palestinese paga il prezzo della storia. Dalla Nakba del 1948, alle guerre degli anni Sessanta, alle intifade, il filo rosso è sempre lo stesso: esilio, oppressione, limiti, negazioni. E oggi la storia si ripete, con nuove armi, nuove dighe di silenzio, nuovi interessi economici.

Le immagini da Gaza non sono propaganda: sono testimonianza. Madri che piangono i figli, bambini che piangono tra le macerie, ospedali senza luce, pazienti morenti su barelle a cielo aperto. La fame — l’arma invisibile — uccide tra i sopravvissuti, chi non ha bombe addosso ma ha muri che lo isolano. “O fate come diciamo noi — oppure continuiamo ad ammazzarvi”. È questo il messaggio che si impone. Ma una pace fondata sul terrore non è pace: è dominio. La ricostruzione che manca, il diritto negato, il popolo che non può sedere al tavolo — tutto parla di una pace che è una resa.

Il popolo palestinese non vuole vendetta: chiede vita, dignità, riconoscimento. Chiede che i suoi figli possano crescere senza bombe, nella terra che è loro. E noi, spettatori che non scegliamo questo campo, non possiamo restare muti. Perché il silenzio — oggi come ieri — è la complicità di chi “fa il deserto e lo chiama pace”. La pace imposta e non condivisa, non sarà mai pace vera.