Il 10 maggio 2025 potrebbe passare alla storia come il giorno in cui l’Europa ha ritrovato il coraggio politico di parlare con una voce sola. A Kyiv, i leader di Francia, Germania, Regno Unito e Polonia si sono schierati accanto a Volodymyr Zelensky per chiedere a Vladimir Putin un cessate il fuoco immediato e incondizionato. Una richiesta forte, chiara, sostenuta pubblicamente dal presidente americano Donald Trump. Il risultato? Nel giro di 48 ore, il Cremlino ha accettato – per la prima volta dall’inizio dell’invasione – di sedersi al tavolo con Zelensky in un vertice mediato dalla Turchia. Una svolta clamorosa. Eppure, in questa fotografia che potrebbe segnare l’inizio della fine del conflitto, un’assenza pesa come un macigno: quella dell’Italia.
Giorgia Meloni, che pure all’inizio della guerra si era distinta per fermezza e atlantismo, ha scelto — o è stata costretta — a restare fuori dal consesso che ha determinato la nuova fase diplomatica. Una scelta che solleva interrogativi profondi. Possibile che Roma non sia stata invitata? O peggio: possibile che abbia rinunciato per non affrontare le divisioni sempre più evidenti nella maggioranza?
Nel governo Meloni convivono almeno tre linee di politica estera. Quella della premier, che resta formalmente filoatlantica e solidale con Kyiv; quella leghista, che oscilla tra silenzi imbarazzati e simpatia mai del tutto nascosta per il putinismo; e quella forzista, oggi più che mai inconsistente e con un ministro degli Esteri chiaramente inadeguato. In questo clima, prendere una posizione netta è diventato un esercizio di equilibrismo che la presidente del Consiglio sembra non voler più affrontare. Ma il prezzo è altissimo: l’Italia fuori dal tavolo dove si ridisegna l’ordine europeo.
Non è solo un problema di immagine. È un errore strategico. Perché mentre Parigi e Berlino riallacciano i fili di una leadership continentale, mentre Londra torna a giocare un ruolo attivo e Varsavia si consolida come perno dell’Europa orientale, l’Italia appare sempre più marginale. Isolata non per necessità, ma per mancanza di visione.
Il vertice di Kyiv è stato un punto di svolta. L’Europa ha parlato, e Putin ha ascoltato. Non era mai successo prima. In questo scenario, l’Italia avrebbe potuto — e dovuto — esserci. Non solo per difendere la causa ucraina, ma per contare qualcosa nella nuova architettura di sicurezza che si va delineando. Non esserci oggi significa non contare domani.
C’è da chiedersi se Meloni, costretta dalla necessità di tenere insieme una coalizione rissosa e divisa, non stia sacrificando il ruolo internazionale dell’Italia sull’altare della sopravvivenza politica. Ma la politica estera non aspetta. E neppure la storia.