Quando Marjorie Taylor Greene è salita sui gradini del Campidoglio vestita di bianco, circondata dalle donne che da adolescenti furono vittime della rete di Jeffrey Epstein, Washington ha capito che qualcosa si era spezzato per sempre. L’icona più rumorosa e mediatica del trumpismo, la deputata che per anni aveva incarnato perfettamente lo spirito MAGA, stava attaccando frontalmente il presidente che l’aveva sempre difesa. E lo faceva su un terreno impossibile da ignorare: la trasparenza sui file di Epstein, un caso che da più di un decennio agita fantasie, sospetti e accuse incrociate.
Per Greene, quello strappo è diventato un atto politico e personale. «Mi ha chiamata traditrice», ha detto, riferendosi al post di Donald Trump su Truth Social. «E tutto perché ho rifiutato di togliere il mio nome dalla richiesta di pubblicare i documenti riservati». Poi la frase che ha fatto tremare l’intero GOP: «Vi spiego io chi è un traditore. Non è chi difende le vittime. È chi serve sé stesso e Paesi stranieri». Una dichiarazione che nessun democratico avrebbe mai potuto pronunciare con lo stesso peso specifico.
Il voto della Camera sugli Epstein Files — 427 sì, un solo no — è stato un plebiscito bipartisan. Ma la vera notizia è che il volto più riconoscibile dell’ala radicale del partito repubblicano non solo ha votato con i dem, ma ha preso la guida del movimento che chiede piena trasparenza. Un capovolgimento di ruoli che racconta molto di come il caso Epstein abbia aperto faglie sotterranee nel trumpismo, mettendo in crisi le fedeltà che sembravano granitiche.
Per anni, Greene è stata il simbolo del contrario: la combattente senza filtri, la voce più fedele al trumpismo, capace di incendiare i social con complotti, accuse e crociate culturali. È stata espulsa dai comitati della Camera, ha litigato con mezzo Congresso, ha sfidato i democratici in diretta tv, ha raccolto milioni di dollari in donazioni grazie al suo stile da guerriera populista. Ma ora interpreta un ruolo totalmente diverso: quello della repubblicana che si è assunta il compito di guidare una battaglia morale dove molti, compresi i big del partito, preferivano il silenzio.
La svolta è diventata evidente nelle ultime settimane, mentre Trump cercava di frenare la pubblicazione dei documenti temendo «strumentalizzazioni» o «attacchi politici». Greene, invece, ha sostenuto che ogni ulteriore rinvio sarebbe un insulto alle sopravvissute. La sua retorica, per una volta, si è trasformata in linguaggio istituzionale, quasi presidenziale: «L’unica cosa che parlerà davvero a queste donne è la trasparenza».
E così la deputata della Georgia ha radunato attiviste, ex vittime, parlamentari di entrambi gli schieramenti e ha portato la questione negli occhi dell’opinione pubblica. Ha preso posizione contro i dazi, ha definito la guerra a Gaza «un genocidio» e ha fatto capire di non essere più disposta a seguire Trump su ogni linea. Lo strappo definitivo è arrivato proprio con gli Epstein Files: la convinzione che la pubblicazione dei documenti sia un dovere etico e non una mossa politica.
L’onda d’urto, nel frattempo, sta travolgendo il GOP. Tra i repubblicani più fedeli al presidente c’è chi la considera ormai un’«infame», chi la definisce «instabile», chi la accusa di essere «passata al nemico». Ma il dato politico è un altro: Greene conosce a memoria la macchina del trumpismo, sa come funziona l’ecosistema mediatico della destra e sa dove colpire per fare male. E proprio per questo, il suo dissenso pesa più di qualsiasi attacco democratico.
Sul fronte opposto, i dem l’hanno accolta come un’alleata temporanea, con prudenza e senza entusiasmo eccessivo. La Casa Bianca, invece, ha cercato di minimizzare: «Trump ha sempre voluto trasparenza», ha dichiarato un portavoce, nel tentativo di evitare una guerra aperta con una figura che, nel bene e nel male, parla ancora a una parte consistente dell’elettorato conservatore.
Resta da capire quanto durerà questa nuova versione di Marjorie Taylor Greene e soprattutto che cosa significa per il futuro del GOP. La deputata non è mai stata una figura moderata, e nessuno si aspetta che lo diventi ora. Ma la sua scelta di spaccare il fronte trumpiano, proprio sul caso più radioattivo degli ultimi anni, segna un precedente difficile da ignorare.
Quando i file saranno pubblicati — entro i 30 giorni previsti dalla legge — a essere sotto i riflettori non sarà solo ciò che contengono, ma anche chi avrà avuto il coraggio politico di chiederne la diffusione. E Greene, mentre il mondo MAGA si divide, si è ritagliata un ruolo che nessuno avrebbe immaginato per lei: quello della dissidente che ha fatto saltare il silenzio.







