C’è stato un tempo in cui tra Israele e Palestina non vi era solo guerra. Un tempo in cui le mani si strinsero, le bandiere non furono bruciate ma sventolate insieme, e il mondo trattenne il fiato, commosso, davanti a ciò che sembrava un miracolo: il dialogo. Era il 13 settembre 1993 quando, nel giardino della Casa Bianca, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader palestinese Yasser Arafat firmarono gli Accordi di Oslo, sotto lo sguardo vigile e ispiratore del presidente americano Bill Clinton. Quella stretta di mano, immortalata dalle telecamere, rappresentò non solo un evento storico, ma la speranza che una pace fosse davvero possibile.
Il processo di Oslo nacque in gran parte in segreto, frutto di incontri informali in Norvegia tra rappresentanti israeliani e palestinesi. Era la prima volta che le due parti si riconoscevano reciprocamente: Israele accettava l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) come legittimo interlocutore, e l’OLP riconosceva il diritto di Israele ad esistere in pace e sicurezza. L’accordo prevedeva la creazione di un’autonomia palestinese nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, con una graduale restituzione del controllo su alcune città ai palestinesi. Il punto più delicato – lo status di Gerusalemme, i confini definitivi, i rifugiati – veniva rimandato a negoziati futuri.
Clinton, da parte sua, si pose come mediatore attivo e determinato. Credeva che una pace duratura tra Israele e Palestina potesse essere il più grande contributo americano alla stabilità mondiale. Non era solo una visione geopolitica: era un progetto umano, che guardava al futuro di due popoli stanchi di combattere. Oslo fu seguito da altri accordi (Oslo II nel 1995, il Vertice di Camp David nel 2000), ma nessuno eguagliò la potenza simbolica di quel primo passo.
Per alcuni anni, la speranza sembrò attecchire. Nelle scuole palestinesi iniziavano a circolare nuovi libri di testo; a Gaza, sorgenti di acqua potabile venivano rinnovate con fondi internazionali. La polizia palestinese fu creata sotto la supervisione di osservatori esterni. A Tel Aviv, migliaia di israeliani scendevano in piazza chiedendo di “dare una chance alla pace”.
Ma la storia, ancora una volta, si rivelò più dura del desiderio. Il 4 novembre 1995, un fanatico ebreo uccise Yitzhak Rabin a Tel Aviv, durante una manifestazione per la pace. Quel colpo di pistola non fu solo l’assassinio di un uomo, ma il colpo mortale a un intero processo di fiducia. La radicalizzazione tornò ad aumentare, sia tra le frange israeliane che tra i movimenti palestinesi, come Hamas, che già da tempo criticavano Oslo come una resa.
Oggi, più di trent’anni dopo, il Medio Oriente è di nuovo prigioniero del sangue. Il processo di pace è stato sepolto da guerre, insediamenti illegali, attentati, blocchi economici, bombardamenti e rappresaglie. La Striscia di Gaza, ridotta a una prigione a cielo aperto, è l’epicentro di una tragedia umanitaria senza precedenti: decine di migliaia di civili uccisi, migliaia di bambini, vite strappate al futuro e senza colpa.
Il conflitto è riesploso con particolare violenza a partire dall’ottobre 2023, dopo l’attacco di Hamas al sud di Israele e la durissima risposta militare israeliana. Le immagini dei palazzi sbriciolati, dei rifugiati ammassati nei corridoi degli ospedali, dei genitori che piangono i loro figli hanno fatto il giro del mondo. Ma il mondo, oggi, sembra più impotente che mai.
Israele ha proseguito la sua offensiva con il dichiarato intento di eliminare Hamas, ma in questo obiettivo si è persa ogni proporzione, e con essa la pietà. Le organizzazioni umanitarie denunciano l’impossibilità di portare soccorsi, e le Nazioni Unite parlano apertamente di catastrofe. Dall’altra parte, i civili israeliani vivono nella paura costante degli attacchi missilistici. Ogni spiraglio di dialogo è stato chiuso.
Eppure, ricordare Oslo non è solo nostalgia. È un atto politico e morale. È ricordare che una via diversa è stata possibile. Che leader coraggiosi seppero dire “basta” alla logica dell’odio e tentarono, nonostante tutto, la pace. Non furono ingenui: furono visionari. E oggi, quando il mondo sembra anestetizzato dal dolore, serve più che mai ritrovare quello spirito.
Serve un nuovo Clinton? Forse. Ma più ancora servono nuove generazioni israeliane e palestinesi disposte a guardarsi negli occhi. Serve un’Europa meno timorosa, un’America meno cinica, e un’opinione pubblica globale capace di pretendere una pace giusta, fondata sul diritto internazionale, sulla sicurezza reciproca e sulla dignità di entrambi i popoli.
Perché se Oslo ha fallito, non è per colpa della pace. È perché troppo pochi l’hanno difesa fino in fondo. “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo” è lo scritto di George Santayana riprodotto su un muro di Auschwitz
Mai come oggi, queste parole suonano drammaticamente attuali.
Andrea Papaccio Napoletano