“Sarajevo era la caccia all’uomo”: la testimonianza choc del pompiere americano Jordan

Sarajevo

Ci sono frasi che, quando vengono pronunciate in un’aula di giustizia, continuano a riecheggiare per anni, come se il tempo non riuscisse a consumarne l’orrore. Quella pronunciata il 3 maggio 2007 dal pompiere americano John Jordan davanti al Tribunale penale dell’Aja è una di queste. Disse: «Ho visto persone che non erano del posto, guidate dai locali». Lo disse con la calma di chi ha assistito all’indicibile e non ha più bisogno di alzare la voce per essere creduto. Jordan aveva passato due anni a Sarajevo come volontario, tra il 1993 e il 1995, per soccorrere civili senza armi né protezione, e fu ferito lui stesso durante un intervento. Ma quello che lo segnò più delle schegge fu la consapevolezza che, in mezzo all’assedio, c’era chi arrivava da lontano non per aiutare, ma per divertirsi a uccidere.

Oggi quelle parole tornano al centro di un’indagine italiana. La procura di Milano, guidata dal pm Alessandro Gobbis, ha chiesto l’acquisizione della sua testimonianza e di altre raccolte dalla corte internazionale dell’Aja per fare luce sulla presenza di connazionali coinvolti nei cosiddetti “safari umani”. Stranieri che, approfittando del caos della guerra, avrebbero pagato miliziani serbi per essere accompagnati sulle colline intorno alla città e sparare sui civili, scegliendo i bersagli come si sceglierebbe un animale nella riserva di caccia. Un’accusa che toglie il respiro e che, secondo quanto riferito da un ex agente dei servizi bosniaci, sarebbe stata nota anche al Sismi, il servizio segreto militare italiano dell’epoca, che avrebbe tentato di bloccare alcuni di quei viaggi.

Jordan, nel suo racconto del 2007, non aveva bisogno di enfasi. Anzi, spiegava con la precisione di un uomo abituato a valutare i dettagli. Fu interrogato dal giudice Patrick Robinson, che gli chiese se fosse davvero in grado di distinguere un locale da uno straniero. Rispose che sì, era osservatore addestrato, e che non era difficile riconoscere chi non apparteneva a quella città ferita: la postura, l’insicurezza nei movimenti fra le macerie, il modo in cui veniva “letteralmente condotto per mano” dai miliziani serbi. Jordan era chiaro: alcuni di quei tiratori non avevano nulla in comune con il teatro di guerra in cui si trovavano. Non erano soldati, non erano volontari umanitari. Erano qualcosa di diverso. E di peggiore.

A distinguerli, raccontava, non erano solo gli abiti, un miscuglio di civile e militare che chiunque avrebbe potuto procurarsi. Il dettaglio decisivo erano le armi. «Quando vedevi qualcuno con un fucile più adatto alla caccia al cinghiale nella Foresta Nera che al combattimento urbano», spiegò, «capivi subito che non era del posto». Non era l’arma tipica dei miliziani serbi né dei difensori bosniaci. Era un’arma da appassionato, da collezionista, da cacciatore: fuori luogo, fuori logica, e per questo ancora più sinistra. A ciò si aggiungeva l’impaccio, la mancanza di dimestichezza con il terreno. «Era evidente che fossero forestieri», disse. Evidente e spaventoso.

Ma il dettaglio più atroce non riguardava l’aspetto. Riguardava la scelta dei bersagli. Jordan lo disse con la voce incrinata: «I tiratori colpivano il più giovane». Raccontò di adulti e bambini che correvano insieme, e del colpo che arrivava immancabile sul più piccolo. Raccontò di famiglie che attraversavano una strada e vedevano strapparsi via il figlio o la figlia da un proiettile invisibile. Raccontò di gruppi di ragazze e del “criterio” che aveva notato con orrore: «Si pensava che la più attraente sarebbe stata colpita». Ricordava tutto, come se avesse davanti agli occhi non un ricordo ma una scena che continuava a ripetersi.

Il suo stupore più grande era per quei colpi che arrivavano mentre i soccorritori cercavano di spegnere un incendio o di estrarre un ferito dalle macerie. «Quale motivo poteva esserci per sparare a un pompiere?», chiese quasi a se stesso. L’unico motivo era la crudeltà pura, la volontà di infliggere dolore gratuito, la trasformazione del conflitto in un gioco perverso. Qualcosa che andava oltre la guerra e che sembrava appartenere più al dominio del sadismo che a quello della strategia militare.

Ora, a quasi trent’anni dall’assedio, quelle parole ritornano. Lo fanno in un fascicolo per omicidio aggravato aperto dalla procura di Milano, che cerca di individuare gli italiani coinvolti. Cinque, secondo alcune testimonianze raccolte negli anni. Persone che avrebbero attraversato i confini per partecipare all’assedio come si partecipa a un’esperienza estrema da raccontare a cena, un’avventura di cui vantarsi. Pagavano, secondo l’accusa, per essere accompagnati sulle alture e colpire chiunque si muovesse nel mirino, senza che ci fosse un obiettivo militare o un criterio strategico. La guerra trasformata in un safari umano.

È impossibile non restare colpiti dall’abisso morale evocato dalla deposizione di Jordan. Una città sotto assedio, scuole bombardate, file per l’acqua falciate dai cecchini, e intanto, tra i crateri e le macerie, uomini arrivati da altri Paesi che scattano foto, ridono, impugnano armi “da cinghiale” e si godono la vista dall’alto di un centro abitato con un solo scopo: colpire un innocente. L’assedio di Sarajevo, già simbolo della ferocia degli anni Novanta, acquista così un’ombra ancora più cupa, quella del male gratuito, del sadismo trasformato in divertimento.

La procura milanese punta ora a ricostruire quei nomi, a confermare o smentire il coinvolgimento di italiani e a verificare quanto fosse reale il ruolo del Sismi, che secondo una testimonianza bosniaca avrebbe avuto informazioni su quei viaggi e tentato di impedirli. Una storia che, se confermata, aprirebbe uno dei capitoli più inquietanti della presenza straniera nei Balcani durante il conflitto.

Jordan, oggi, non è più sotto i riflettori. Ma la sua voce continua a emergere dalle carte dell’Aja con una forza che non si attenua. È la voce di chi ha visto l’orrore senza filtri e ha scelto di raccontarlo, anche quando farlo significava riaprire ferite mai davvero chiuse. Quell’orrore torna ora a interrogarci, mentre un’indagine italiana prova a dare un nome e un cognome a una pagina che nessuno avrebbe voluto riscrivere.