Trump e la musica: quando il vero scandalo è non avere orecchio (politico)

Donald Trump esegue la “Trump Dance” al termine del suo discorso

Di Donald Trump si è detto tutto. Che twitta troppo, che gioca al golf nei momenti peggiori, che mente con disinvoltura come si trovasse ad una serata di karaoke fra amici. Ma c’è una colpa che spesso sfugge al radar delle grandi inchieste: Trump non capisce nulla di musica. Un peccato veniale? Non proprio. Per un uomo che guida (più o meno) il paese più potente del mondo, l’assenza di una cultura musicale decente è quasi una questione di sicurezza nazionale.

Sì, perché la musica dice chi sei. E mentre Barack Obama diffondeva ogni anno la sua famosa Summer Playlist piena zeppa di soul, jazz, hip hop, indie e perle di classe, Trump… beh, Trump diffonde rumore. Più che playlist, lui sembra esperto nel produrre la colonna sonora dell’ansia collettiva.

Le playlist di Obama: tra eleganza, groove e soft power

Ricordate le scalette musicali di Obama? Un mix sapiente di Kendrick Lamar, Aretha Franklin, Miles Davis, Erykah Badu, Beyoncé e qualche chicca anni ’70. Roba che ti faceva pensare: questo presidente sa cos’è la bellezza. La musica era il suo modo di parlare senza parlare, di creare empatia e stile, con gusto e profondità. Era cool senza forzare, sapeva mischiare Marvin Gaye e i Rolling Stones con i nuovi talenti della scena. E se non conoscevi un artista… l’ex presidente aveva già fatto la cernita per te. Ogni nota raccontava un’America aperta, sfaccettata, inclusiva.

Trump, invece, ha preferito il silenzio. Ma non quello buono.

Dall’altro lato, cosa ascolta The Donald? Ufficialmente nulla. O quasi. A parte qualche uso improprio di canzoni dei Rolling Stones, Neil Young o Bruce Springsteen (tutti artisti che, tra l’altro, gli hanno chiesto esplicitamente di smettere di usarei loro brani nei comizi), non esiste una vera “musica di Trump”. Il suo sound, più che da playlist, è da megafono: forte, piatto, monocorde. Nessun messaggio culturale, nessuna vibrazione estetica. Solo il loop infinito di una narrazione fatta di slogan e tamburi mediatici. Qui il massimo dell’arte sonora è il jingle di una televendita del 1995.

Quando l’ignoranza è un messaggio

Si può essere grandi leader senza amare la musica? Forse sì. Ma ignorare completamente il potere comunicativo delle note è un’occasione persa. Perché la musica è cultura, è ponte, è storytelling. E nella politica contemporanea, non saperla usare è come non saper parlare. Obama di questo era perfettamente consapevole: usare la musica non per piacere a tutti, ma per dire qualcosa di sé. Trump, invece, ha sempre parlato sempre e solo di sé, dimenticandosi che un Paese è anche un coro, non solo un solista… che – non dimentichiamolo – può pure steccare. 

Tra una chitarra e una bugia

A conti fatti, Trump è un presidente rumoroso, ma non musicale. Dove Obama creava atmosfere, lui alza solo il volume. Dove l’uno apriva finestre sul mondo, l’altro chiude le porte a doppia mandata. E se è vero che la musica è l’anima di un popolo, allora l’America di Trump sembra spesso senza colonna sonora. O, peggio ancora, fuori tempo massimo.

Cosa succede se il “Boss” del rock sfida quello della politica 

Se la politica è teatro, allora Donald Trump e Bruce Springsteen hanno messo in scena una delle pièce più assurde della storia americana recente. I due uomini – opposti per valori, stile, linguaggio e pettinatura – sono diventati protagonisti di una vera e propria faida pubblica, esplosa tra comizi, concerti e social network, con tanto di montaggi video digitali e insulti da bar (o da campo da golf). Da un lato Springsteen, icona liberal e voce delle periferie americane; dall’altro, Trump, imprenditore pop-politico e megafono dell’America conservatrice e incattivita. In mezzo, milioni di cittadini che si interrogano se la democrazia sia in buone mani… o in cuffie con la musica sbagliata. Il round più recente di questa querelle è andato in scena (letteralmente) il 14 maggio 2025, sul palco della Co-op Live a Manchester, durante l’apertura del tour europeo Land of Hope and Dreams. In un appello tanto accorato quanto politico, Springsteen ha denunciato lo stato della democrazia americana, definendo l’attuale amministrazione “corrotta, incompetente e traditrice”.

Il comizio rock

«Nel mio Paese, l’America che amo – ha tuonato il Boss – quella che ho cantato per decenni, è oggi in mano a chi tradisce i valori su cui è stata fondata. Dobbiamo alzarci e farci sentire, o sarà troppo tardi». Un un atto di resistenza civile o, più semplicemente, Springsteen che fa Springsteen. Il discorso, ripreso integralmente sui social ufficiali del cantante, ha fatto il giro del mondo. Non è servito molto per farlo arrivare fino a Mar-a-Lago.

La replica del Presidentissimo

Due giorni dopo, Donald Trump ha risposto come sa fare: esagerando, offendendo, digitando a raffica su Truth Social, il suo personale rifugio social post-Twitter. Il bersaglio è stato diretto e personale: «Questo ‘prugnone’ del rock – ha scritto Trump – è solo un idiota che appoggia Joe Biden, lo scemo mentale più incapace della storia». Sì, ha scritto prugnone. Un termine che entra di diritto nel dizionario parallelo della Trump-era, insieme a “Sleepy Joe” e “Crooked Hillary”. Non pago, Trump ha insinuato che Springsteen avrebbe ricevuto pagamenti illeciti da Kamala Harris durante la campagna elettorale del 2024, parlando di “contributi elettorali mascherati da concerti”. Un’accusa grave, ma – come sempre – non supportata da alcuna prova concreta. La CBS News ha infatti confermato che al momento non esistono indagini ufficiali in merito.

Satira digitale: il video fake della pallina da golf

A questo punto, la vicenda ha preso una piega degna dei Looney Tunes. Nel tentativo (riuscito) di infiammare ulteriormente la base elettorale, Trump ha diffuso un video satirico, palesemente modificato, in cui lo si vede colpire una pallina da golf che – magicamente – raggiunge Springsteen, facendolo cadere sul palco. Una gag digitale, già usata in passato per altri suoi nemici politici e mediatici, da Joe Biden a Hillary Clinton. Ma il colpo riservato al Boss ha suscitato reazioni indignate, tra chi ha visto in quella clip l’ennesima banalizzazione violenta del dissenso e chi ha sottolineato il livello sempre più grottesco del dibattito pubblico americano. Trump, d’altra parte, ha sempre reagito con derisione e livore, attaccando l’iconografia liberal associata a Springsteen, inclusa la sua celebre esibizione durante l’insediamento di Obama, che l’ex presidente considera ancora oggi “il punto più basso dell’industria musicale americana”. Insomma, non si sopportano. 

Due Americhe, due linguaggi

Ma oltre le offese c’è un significato più profondo. Questa rivalità rappresenta lo scontro tra due visioni dell’America: quella raccontata da Springsteen, figlia del lavoro, della classe media, dei sogni infranti e delle redenzioni possibili. Opposta a quella promossa da Trump, fatta di business, slogan, cinismo e promesse facili. Bruce suona la chitarra, Trump… la tastiera del telefono. Il primo canta Born in the U.S.A. e sottolinea le contraddizioni del suo Paese; il secondo la usa come colonna sonora dei suoi comizi, ignorandone il senso critico. Una metafora perfetta di come cultura e potere possano parlare due lingue incompatibili.

Musica e opposizione politica

Dalla fine degli anni ’70, i testi di Springsteen sono stati letti – e vissuti – come racconti popolari dell’America reale. Ha sostenuto John Kerry, Barack Obama, Joe Biden e ora Kamala Harris. Ha cantato contro la guerra in Iraq, contro l’ingiustizia sociale e contro il razzismo sistemico. È, a tutti gli effetti, una coscienza musicale dell’America progressista. Trump, al contrario, ha sempre faticato a trovare artisti disposti a sostenerlo. Molti – da Neil Young ai Rolling Stones – gli hanno intimato di non usare la loro musica nei raduni. Un dato non solo simbolico: la cultura pop, negli USA, tende a respingere Trump come un virus fuori sintonia. L’intera vicenda Trump-Springsteen è ridicola? Forse. Ma anche tragicamente indicativa. In un Paese spaccato in due, dove ogni parola diventa schieramento, anche una canzone può trasformarsi in una dichiarazione di guerra. La loro faida è solo una delle tante… ma è anche tra le più emblematiche. Perché dietro le prugne secche, le palline da golf e i tweet sgrammaticati, c’è una lotta culturale per il cuore dell’America. Una disputa che  dice più di mille sondaggi. Ci racconta un’America stanca, iperpolarizzata, in cerca di una precisa identità. Dove un cantante può ancora essere una voce di coscienza, e un ex presidente può scegliere di combatterlo con una gif. Chi vince? Nessuno. O forse Springsteen, che ha ricordato che la libertà – quella vera – non ha bisogno di slogan, ma di parole, musica e coraggio.

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