Donald Trump ha deciso che la scienza è sopravvalutata. In un colpo di spugna che sa di magia nera più che di politica, la sua Epa – l’agenzia federale per la protezione ambientale – ha annunciato la volontà di cancellare la “dichiarazione di pericolo” del 2009, quella che sotto Barack Obama aveva riconosciuto i gas serra come minaccia concreta per la salute umana e per il pianeta. Sedici anni di studi, normative, regolamenti e appelli alla prudenza finiscono così nella pattumiera, mentre gli Stati Uniti bruciano sotto ondate di calore record e la Terra entra nella lista dei pazienti in terapia intensiva.
È il capolavoro di un presidente che ha sempre trattato il cambiamento climatico come una barzelletta da comizio: prima “bufala cinese”, ora ostacolo fastidioso alla sua idea di “età dell’oro” americana, fatta di trivelle, carbone e benzina a buon mercato. La sua amministrazione promette di eliminare la base scientifica che giustificava limiti alle emissioni di auto, camion e centrali elettriche. Traduzione brutale: niente più vincoli ai combustibili fossili, avanti tutta verso il passato, e chi si lamenta respiri pure a pieni polmoni l’aria che c’è.
Alla Casa Bianca e all’Epa si respira un’aria di liberazione. Lee Zeldin, il direttore dell’agenzia, parla come un ex seminarista che ha appena rovesciato l’altare della scienza climatica: “Quella dichiarazione era piena di salti mentali, non contenuti né nel testo né nei precedenti dell’Epa”. Al suo fianco, il segretario all’Energia Chris Wright sfoggia una squadra di cinque scienziati “non intimiditi dalla religione del cambiamento climatico”. Peccato che, secondo gli ambientalisti, siano cinque negazionisti vestiti da esperti. La loro valutazione è stata persino “revisionata” dai laboratori nazionali, ma la stessa Epa ammette che è stata una revisione “breve”. D’altronde, perché sprecare tempo con la scienza quando la politica può fare abracadabra?
Il risultato è un documento che sembra scritto più a Mar-a-Lago che in un laboratorio: il cambiamento climatico non è un pericolo, i gas serra non fanno male, le emissioni da veicoli e impianti industriali sono praticamente innocue. E mentre l’amministrazione cancella grafici e tabelle, gli scienziati veri lanciano allarmi sempre più cupi: il mondo si avvicina a superare l’aumento di 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale, la soglia fissata per evitare i danni peggiori e irreversibili. Ma alla corte di Trump, la scienza resta un fastidio, un orpello da radical chic.
Gli ambientalisti parlano di “atto criminale contro le future generazioni” e preparano cause a raffica. Per sessanta giorni, cittadini, esperti e associazioni potranno esprimere osservazioni prima che la decisione diventi definitiva. Ma la traiettoria è chiara: l’America si sta preparando a fare marcia indietro di decenni, rinnegando il ruolo di guida nella lotta al riscaldamento globale e consegnandosi a un futuro più caldo, più inquinato e più pericoloso.
Intanto, fuori dalla bolla di Washington, la realtà picchia duro: foreste in fiamme dalla California al Texas, uragani sempre più violenti, città soffocate da ondate di calore senza precedenti. Mentre la scienza urla, la politica fa spallucce e brinda al ritorno del petrolio come simbolo di rinascita nazionale. Trump sorride, il carbone pure. Il pianeta, molto meno.