Una penna, un gesto e un messaggio che pesa come un macigno sulla politica americana. Donald Trump ha firmato la grazia presidenziale per Rudolph Giuliani e una dozzina di suoi collaboratori storici, accusati di aver orchestrato la strategia per contestare i risultati delle elezioni del 2020. L’atto di clemenza, reso noto dal Dipartimento di Giustizia, ha immediatamente spaccato il Paese: per i repubblicani è un atto di giustizia, per i democratici un abuso di potere.
Il documento, pubblicato dall’avvocato Ed Martin, conferma che la grazia è “piena, completa e incondizionata”. A beneficiarne, oltre a Giuliani, Mark Meadows, allora capo di gabinetto della Casa Bianca, gli avvocati John Eastman e Kenneth Chesebro, la legale conservatrice Sidney Powell, e Boris Epshteyn, consigliere politico di lunga data del presidente. Tutti nomi legati al fronte che tentò di mettere in discussione la vittoria di Joe Biden, spingendo Mike Pence a non certificare il risultato il 6 gennaio 2021.
Giuliani è la figura centrale di questo provvedimento. L’ex sindaco di New York, simbolo dell’America del “dopo 11 settembre”, si era trasformato nel più agguerrito difensore di Trump, arrivando a guidare la campagna di pressione sui parlamenti statali per ribaltare il voto. Accusato di aver diffuso teorie complottistiche e di aver esercitato pressioni indebite, è stato per anni il volto del trumpismo più militante. Ora, la grazia lo libera da ogni possibile azione federale futura. “Un patriota, non un criminale”, ha detto Trump annunciando il provvedimento dal giardino della Casa Bianca.
La mossa, però, ha riaperto ferite mai rimarginate. Jack Smith, il procuratore speciale che aveva indagato su Trump per le interferenze elettorali, aveva indicato Giuliani, Eastman e Powell come “co-cospiratori non imputati” nel suo rapporto finale. Con la grazia, ogni eventuale procedimento a loro carico per fatti federali viene definitivamente bloccato.
Trump ha sempre difeso il diritto costituzionale del presidente di concedere la grazia “a chi ha servito il Paese sotto attacco politico”. Non ha incluso se stesso nell’elenco dei beneficiari — gesto che molti interpretano come una mossa strategica — ma ha scelto di salvare chi, nel 2020, lo aveva seguito fino all’estremo, fino alle porte del Campidoglio assediato.
Nel frattempo, il Dipartimento di Giustizia sembra pronto a riaprire un fronte parallelo: i procuratori della Florida hanno citato in giudizio l’ex direttore della Cia John Brennan, insieme a Peter Strzok e Lisa Page, due ex funzionari dell’Fbi che indagarono sui presunti legami tra la campagna di Trump e Mosca nel 2016. Un segnale chiaro che la nuova amministrazione intende riscrivere la narrazione del Russiagate, ribaltando il ruolo di vittima e colpevole.
L’indagine punta a riesaminare i dossier e le comunicazioni riservate che avevano dato origine all’inchiesta. Un’iniziativa che i democratici definiscono “una vendetta personale del presidente contro chi ha osato metterlo sotto accusa”. Ma i repubblicani parlano di “una necessaria operazione di trasparenza”.
Il documento di grazia, non datato e privo di spiegazioni ufficiali, non è stato commentato dalla Casa Bianca. Tuttavia, il segnale politico è inequivocabile: Trump premia la lealtà, punisce il dissenso e riporta al centro del dibattito la linea dura contro l’establishment federale.
Oltre ai suoi più stretti collaboratori, la grazia si estende a decine di attivisti repubblicani che avevano firmato dichiarazioni false come “grandi elettori” in alcuni Stati chiave. Quella manovra, ritenuta illegale in diversi procedimenti locali, era parte di una strategia per delegittimare i risultati del voto. Ma il perdono presidenziale, limitato ai reati federali, ne disinnesca gli effetti solo in parte.
Le opposizioni gridano allo scandalo. Il senatore democratico Cory Booker ha definito la decisione “un atto di protezione mafiosa”, mentre la deputata Alexandria Ocasio-Cortez ha parlato di “un pericoloso precedente: il messaggio che chi serve un leader e non la legge, verrà premiato”.
Dall’altra parte, i sostenitori del presidente parlano di una mossa “necessaria per sanare l’ingiustizia”. Per Marjorie Taylor Greene, “Trump ha solo restituito dignità a chi è stato perseguitato per motivi politici”.
Giuliani, dal canto suo, ha reagito con un post sui social: “Non ho mai smesso di credere che la verità avrebbe prevalso. Ho servito il mio Paese e il mio presidente con onore”.
La verità, però, è che la grazia non chiude nulla: riapre una stagione di conflitti, sospetti e divisioni. In un’America dove la giustizia sembra sempre più un terreno di battaglia politica, la linea che separa la clemenza dal favore personale si assottiglia ogni giorno di più.
Trump, intanto, festeggia un’altra vittoria simbolica. Con un colpo di penna, ha rimesso in gioco Giuliani e i suoi sodali, ha rivendicato la propria narrativa e ha trasformato la grazia in un’arma politica. Nel suo lessico, la parola perdono non significa pace: significa potere.







