Di fronte al binario, con la valigia di cartone legata con lo spago e lo sguardo rivolto al Nord, un’intera generazione è salita sulla “Freccia del Sud” portando con sé speranze, paure e il peso di una distanza non solo geografica. Settantatré anni di questi giorni, esattamente il 23 maggio 1953, partì per la prima volta quel treno che avrebbe unito Milano con Palermo, Siracusa e, in seguito, Agrigento. Una linea diretta di 1.546 chilometri, quasi 24 ore di viaggio, una traversata epica nella geografia e nell’anima di un’Italia divisa. Eppure Milano e Roma sembravano molto più vicine a Paola e perfino a Palermo. Ma era un viaggio per molti aspetti infinito, fatto di dolore ma anche di speranza.
Era un treno-mondo, la Freccia del Sud, molto più di una coincidenza ferroviaria: era il simbolo di un Paese che cercava di ricucire i propri lembi, di unire il boom economico delle città settentrionali con la vitalità, spesso ignorata, del Meridione. Nelle carrozze stipate, tra valigie, sacchetti colmi di cibo e bambini che dormivano sulle ginocchia delle madri, scorrevano le storie di chi partiva per lavorare, per studiare, per inseguire un futuro altrove. Il viaggio era lungo, faticoso, quasi iniziatico: si partiva al tramonto e si arrivava all’alba del giorno dopo, attraversando Appennini, pianure e coste, attraversando anche se stessi.
Ma se quel treno fu per decenni l’unica arteria vitale tra Nord e Sud, oggi è un ricordo mitico, una pellicola in bianco e nero che ancora resiste nella memoria collettiva. Negli anni 2000, al posto dei vagoni affollati e degli scompartimenti fumosi, è arrivata un’altra “freccia”: quella rossa dell’Alta Velocità. Trenitalia ha esteso i suoi collegamenti verso il Meridione, e oggi sono diverse le Frecciarossa e Frecciargento che collegano Reggio Calabria a Roma in meno di cinque ore. Da Paola appena tre ore. Un miracolo, se si pensa che fino a vent’anni fa servivano dieci-dodici ore e diversi cambi.
Eppure, dietro il progresso e le promesse di modernità, resta una verità strutturale che non si può ignorare: l’alta velocità, quella vera, al Sud non è ancora arrivata. I Frecciarossa e Frecciargento che oggi partono da Napoli, Salerno, e da qualche anno anche da Reggio Calabria, viaggiano ancora su linee convenzionali. I treni sono veloci, sì, ma i binari restano quelli di un’Italia a due velocità. Non esistono ancora le linee dedicate che attraversano la Campania, la Basilicata, la Calabria o la Sicilia. L’infrastruttura è la stessa su cui viaggiava, mezzo secolo fa, la vecchia Freccia del Sud. Solo i tempi si sono dimezzati, non le disparità.
Il paradosso è evidente: mentre l’Alta Velocità ha cambiato la geografia sociale ed economica del Centro-Nord, accorciando le distanze tra Milano, Bologna, Firenze, Roma e Napoli, al Sud tutto è più lento. I progetti per una vera AV Napoli-Reggio Calabria, e quindi per un collegamento ad alta capacità con la Sicilia, si rincorrono da anni. Annunci, studi di fattibilità, fondi europei, ma sul campo il cambiamento resta in ritardo.
E così, mentre i treni cambiano nome e forma, la sensazione è che il Sud debba ancora guadagnarsi il diritto di viaggiare veloce. Come se la velocità fosse un privilegio riservato solo a una parte del Paese. Nel frattempo, resta la nostalgia per quei viaggi eterni, carichi di umanità e fatica, ma anche la consapevolezza che il futuro non può prescindere dall’equità dei collegamenti. L’alta velocità non deve essere solo una questione di tecnologia, ma di giustizia territoriale.
Oggi, nel ricordo della prima Freccia del Sud, si impone una domanda: perché a oltre settant’anni da quel primo viaggio, il Sud è ancora costretto ad arrancare, mentre il resto del Paese corre? La risposta è politica, economica, infrastrutturale. Ma anche culturale. Perché un Paese che non investe nel Sud è un Paese che rinuncia al proprio futuro.
E allora forse serve una nuova Freccia del Sud. Non un treno nostalgico, ma una visione concreta: che il viaggio tra Nord e Sud non sia più una traversata della speranza, ma un semplice diritto di mobilità. Rapido, dignitoso, equo. Perché anche la velocità, se arriva troppo tardi, può diventare un’altra forma di distanza.
di Ernesto Mastroianni & Andrea Papaccio Napoletano