Moda e rifiuti: milioni di tonnellate di abiti usati stanno soffocando l’Africa

mercatino sostenibile

Ogni anno nel mondo vengono prodotti circa 83 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, e il dato è in crescita. Di questi, oltre il 65% è composto da fibre sintetiche derivate da combustibili fossili. A rendere più drammatica la situazione, ogni secondo l’equivalente di un camion di vestiti viene bruciato, gettato in discarica o disperso nell’ambiente.

A finire travolta da questo tsunami di abiti dismessi è soprattutto l’Africa, che nel 2019 ha ricevuto quasi la metà del tessile usato esportato dall’Unione Europea. Secondo il nuovo rapporto di Greenpeace Africa, intitolato Draped in Injustice, gran parte di questi capi è invendibile o danneggiato, e si trasforma rapidamente in rifiuto, contaminando suolo, corsi d’acqua e mari.

I numeri di una crisi globale

Nel 2022, Angola, Kenya, Tunisia, Ghana, Benin e Repubblica Democratica del Congo hanno ricevuto quasi 900 mila tonnellate di abiti usati. Solo il Kenya, nel 2021, ha importato 900 milioni di capi, di cui il 50% è finito in discariche o bruciato all’aperto per la scarsa qualità. L’inquinamento coinvolge aree già fragili, come la discarica di Dandora o il fiume Nairobi, dove i tessuti sintetici bloccano gli scarichi e contaminano l’acqua.

Anche in Uganda, nel 2023, sono arrivate 100 mila tonnellate di indumenti usati, provenienti principalmente da Cina, Stati Uniti e Canada. Greenpeace stima che fino a 48 tonnellate al giorno diventino rifiuti, rendendo impossibile una gestione sostenibile.

Il Ghana è tra i Paesi più colpiti: ogni settimana riceve 15 milioni di capi, ma quasi la metà viene immediatamente scartata e riversata nell’ambiente. Una recente inchiesta condotta da Unearthed e Greenpeace Africa ha documentato la presenza di abiti provenienti dal Regno Unito – firmati M&S, Zara, H&M, Primark – in discariche a cielo aperto vicino ad Accra, dentro un’area protetta dalla Convenzione di Ramsar per la presenza di tartarughe marine in via d’estinzione.

Un modello insostenibile

L’industria della moda è responsabile fino al 10% delle emissioni globali di gas serra, aggravate da un sistema produttivo che incoraggia il consumo rapido e lo spreco: il cosiddetto fast fashion. I tessuti sintetici, oltre a derivare da fonti fossili, rilasciano microplastiche che compromettono la salute degli oceani e degli esseri umani.

La filiera tessile utilizza anche un’enorme quantità di sostanze chimiche pericolose: almeno 250 su 3.000 impiegate nei processi di produzione sono classificate come nocive per la salute e l’ambiente. Molti abiti scartati finiscono in discariche illegali o nei corsi d’acqua, aumentando i rischi sanitari per le popolazioni locali.

Le richieste di Greenpeace

Greenpeace chiede un cambio di rotta urgente, proponendo misure concrete:

  • Approvare un Trattato globale sulla plastica, che limiti la produzione di fibre sintetiche;
  • Responsabilizzare le aziende attraverso politiche di responsabilità estesa del produttore (EPR);
  • Vietare le sostanze chimiche pericolose nella produzione tessile;
  • Investire in infrastrutture per il riciclo, la raccolta e il riutilizzo degli abiti usati;
  • Promuovere il tessile locale, l’upcycling e la riparazione dei capi;
  • Coinvolgere i consumatori con campagne di educazione ambientale;
  • Applicare il principio “chi inquina paga” per i danni causati all’ambiente e alla salute.

Cosa possono fare i consumatori

Anche chi acquista può fare la differenza. Greenpeace Italia ha pubblicato nei giorni scorsi la guida gratuita “Oltre il fast fashion”, pensata per aiutare i consumatori a scegliere capi più sostenibili. Il manuale, scaricabile dai firmatari della nuova petizione contro la moda ultrarapida, offre consigli pratici per riconoscere gli abiti più inquinanti e orientarsi tra le certificazioni più affidabili.