Non votare è una scelta. Ma non è mai una scelta neutrale. È un’azione politica quanto, se non più, del voto stesso. Astenersi significa ritirarsi dalla scena pubblica, lasciare il proprio posto vuoto nel grande tavolo in cui si decide del nostro futuro. E quel vuoto, nella democrazia, ha un costo altissimo.
Il sistema democratico si fonda sulla partecipazione. È fragile per natura, proprio perché vive del consenso attivo dei cittadini. Quando questo consenso si ritira, quando milioni di persone decidono che “non vale la pena”, che “tanto non cambia nulla”, la democrazia si svuota, si incrina, si deforma.
In Italia questo fenomeno ha assunto proporzioni allarmanti. Alle ultime elezioni politiche del 2022, meno del 64% degli aventi diritto ha votato — il dato più basso nella storia repubblicana. Ma è sul fronte delle elezioni amministrative che il colpo è stato ancora più duro: in molti comuni capoluogo, l’affluenza si è fermata ben sotto il 50%, con città importanti come Roma, Napoli e Milano che hanno visto metà dei cittadini restare a casa. Nelle recenti elezioni regionali in Lombardia e Lazio (2023), ha votato meno del 40% degli elettori.
E non è solo un problema italiano. In tutto l’Occidente, l’astensionismo è una malattia in espansione. Stati Uniti, Francia, Germania, Spagna: tutti mostrano, con sfumature diverse, una progressiva disaffezione al voto. Ma in Italia, dove il tessuto democratico è già logorato da anni di instabilità politica, scandali, sfiducia verso i partiti e istituzioni in crisi, questa tendenza assume una gravità particolare.
Quando vota meno della metà dell’elettorato, chi vince rappresenta davvero la volontà popolare?
Quando i referendum non raggiungono il quorum, anche le proposte più urgenti e partecipate cadono nel vuoto.
Quando l’astensionismo diventa la norma, si spalanca lo spazio per derive autoritarie o populiste, perché il potere si concentra nelle mani di chi sa mobilitare una minoranza compatta.
Non votare significa questo: lasciare che altri decidano al posto nostro, e accettare in silenzio qualunque esito. È una rinuncia alla cittadinanza attiva. È come gettare via una chiave che apre la porta della nostra dignità civile.
Il paradosso
Molti si astengono perché sono delusi, perché non si sentono rappresentati, perché non credono più nella politica. Eppure, proprio per questo, dovrebbero votare. Per cambiare, per correggere, per contare.
La democrazia non è un’illusione: è uno strumento imperfetto, ma ancora il migliore che abbiamo per impedire che la realtà venga scritta solo dai potenti, dai ricchi, o da chi urla più forte.
Il caso del referendum 8-9 giugno
Nel caso del referendum dell’8-9 giugno, l’astensione ha un impatto diretto: se non si raggiunge il quorum del 50% + 1 degli aventi diritto, tutti e cinque i quesiti falliranno. Anche se la maggioranza dei votanti votasse “Sì”, la volontà popolare non avrà forza di legge.
Significa che milioni di italiani potrebbero decidere di cambiare le regole su cittadinanza e lavoro — ma che la loro voce verrà ignorata solo perché troppi avranno scelto di non alzarsi dal divano.
Un diritto che è anche un dovere
Il voto non è solo un diritto individuale. È un dovere collettivo, perché da esso dipende la salute dell’intera democrazia. Ogni scheda non depositata è un mattone tolto alle fondamenta della Repubblica.
Chi si astiene non si ribella al sistema: lo abbandona. E in quel vuoto, non cresce la libertà, ma il disordine, l’indifferenza, o peggio, il dominio delle élite o degli estremisti.
Votare è dire: “Io ci sono. Io partecipo. Io difendo la mia democrazia.” Non votare è dire: “Io rinuncio.” E una democrazia fatta di rinunce non è più una democrazia: è solo un simulacro, una forma vuota.
L’8 e 9 giugno, alziamoci. Andiamo a votare. Non per obbedienza, ma per dignità. Ricordiamo sempre sagge parole del presidente Pertini: “È meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le dittature…”
Francesco Vilotta – Scrittore-Filosofo