C’è chi lo definisce un “mastino della spesa pubblica”, chi ne ricorda gli sfoghi televisivi e i diktat ai fannulloni, chi ancora lo celebra come un instancabile difensore dell’efficienza della pubblica amministrazione. Ma Renato Brunetta, oggi presidente del CNEL, pardon, Schnell, come lo chiama chi conosce la rapidità con cui scorrono i fondi, resta una figura che divide. Piccolo di statura ma non certo di ego, dalla voce squillante e dal temperamento acceso, è stato per decenni un fedelissimo berlusconiano, titolare più volte del dicastero della Pubblica amministrazione, sempre in lotta contro la “casta parassitaria”, almeno quella altrui.
Eppure, nel Paese dai 3.000 miliardi di debito pubblico e dai 6 milioni di poveri certificati dall’Istat, il CNEL da lui presieduto continua a muoversi come se fosse immune al senso del limite. Altro che sobrietà francescana: l’elenco delle spese sostenute in questi mesi ha più l’aspetto di un inventario da reggia barocca che di un centro studi sulla contrattazione collettiva.
Tappeti per 4.000 euro (forse per non far rumore mentre si cammina sui problemi?), 118.000 euro per portierato e accoglienza (il paese reale ringrazia), quasi 4.000 per divise e mostrine (il look, si sa, fa l’istituzione), 14.700 euro per la tintoria, 2.000 per cornici (la burocrazia incorniciata, appunto), 70.000 per missioni e trasferte, e addirittura 1.846 euro per 29 copie di un libro celebrativo sulla storia del CNEL. Libri che, con ogni probabilità, leggeranno in pochi, ma che costano parecchio. E poi le vasche con le piante (le kenzie, non i ministri), 1.200 euro di timbri, 752 euro di cerotti – probabilmente non bastano a medicare la ferita al buon senso.
Il CNEL, ricordiamolo, è stato oggetto di un referendum costituzionale nel 2016 per l’abolizione. Quel referendum fallì con la sconfitta del fronte renziano, e il CNEL sopravvisse. Ma la sua esistenza resta un punto interrogativo per molti, anche tra i costituzionalisti: poco utile, scarsamente incisivo, costosissimo. E oggi, con Brunetta alla guida, sembra un’entità ancora più blindata nel suo autoreferenzialismo, nonostante proclami di riforma e aperture al mondo produttivo.
Brunetta è un personaggio che non si presta a mezze misure. Brillante economista, battagliero oratore, uomo di partito con le spalle larghe e gli amici giusti, è stato alfiere della lotta agli sprechi. Ma oggi si trova, paradossalmente, ad essere il simbolo di quelle spese che alimentano il discredito verso le istituzioni pubbliche.
È qui il nodo, e non è solo Brunetta.
Il punto è più ampio, e coinvolge l’intero sistema della pubblica amministrazione italiana. Troppi enti, troppi carrozzoni, troppe risorse allocate senza una valutazione di impatto, troppe “spese di rappresentanza” che rappresentano solo lo sfarzo dell’inutilità. Serve una cultura della severità, della sobrietà, del rigore. Una cultura che oggi manca, nonostante i proclami.
Perché ogni euro pubblico speso in cornici o tappeti è un euro tolto alla sanità, alla scuola, alla povertà energetica, alla digitalizzazione reale. Il cittadino questo lo sa, lo percepisce, e si allontana. E intanto il debito galoppa, e i giovani scappano, e i poveri aumentano.
Brunetta è un simbolo, certo, ma è solo la punta di un iceberg che si chiama “cattiva gestione della cosa pubblica”. Non basta accusare i “fannulloni” se poi si alimenta un sistema di spese poco trasparenti. Non basta chiedere sacrifici se chi dirige non dà il buon esempio. È tempo di invertire la rotta. Con meno mostrine e più dignità.
Tacco di Ghino