Il governo Meloni si arrampica sugli specchi per difendere l’indifendibile: il rimpatrio lampo del generale libico Ahmad Almasri, torturatore noto e ricercato dalla Corte penale internazionale, rischia di trasformarsi in un boomerang politico e giudiziario. La memoria di 15 pagine inviata dal nostro ambasciatore all’Aja, Augusto Massari, ai giudici della Cpi è una miscela di contorsioni giuridiche, ammissioni imbarazzanti e accuse incrociate che sanno tanto di resa diplomatica. Roma, di fatto, disconosce la competenza del procuratore della Corte e confessa di aver agito per “stato di necessità”, ossia per il timore di ritorsioni contro cittadini italiani in Libia.
Il cuore della difesa italiana è tutto qui: al momento dell’arresto di Almasri – sostiene il governo – “sussistevano rischi concreti che potessero essere perpetrati atti di ritorsione contro cittadini italiani in Libia”. Tradotto: Roma si è piegata alla minaccia implicita dei miliziani del generale. Un’ammissione che suona come un colpo di maglio alla credibilità del Paese, perché lo “stato di necessità” è un argomento di ultima spiaggia: significa confessare che le decisioni non sono state prese per rispetto delle norme internazionali, ma per paura.
Non basta: nella stessa memoria il governo arriva a negare il ruolo della procura della Cpi. “Le uniche parti in questo procedimento sono lo Stato e la Corte, la procura non ha alcun ruolo”, scrive Massari. Una linea difensiva surreale, visto che senza procura non esisterebbe alcun procedimento. Una mossa disperata per tentare di evitare il deferimento formale per inadempienza, che pende come una spada di Damocle sulla scrivania del ministro della Giustizia Carlo Nordio e su quella di Giorgia Meloni.
Come se non bastasse, Roma cambia ancora versione sulla fantomatica richiesta di estradizione arrivata da Tripoli. Prima presentata come un alibi per il rimpatrio, oggi viene ridimensionata a “ulteriore elemento di complessità”. In realtà, si trattava di una semplice lettera dell’ambasciatore libico: una paginetta scarna, usata come foglia di fico per giustificare la consegna lampo di Almasri, caricata su un Falcon di Stato e spedita a casa senza che la Cpi potesse intervenire.
Il governo prova a spiegare che il rientro non fu “una conseguenza giuridica automatica” della richiesta libica, ma il frutto di un’“espulsione per motivi di ordine pubblico e sicurezza nazionale”. Una tesi arzigogolata, che non cancella un fatto: l’Italia non ha estradato il generale come previsto dal mandato internazionale, ma lo ha rimpatriato di corsa, violando gli obblighi di cooperazione.
Nella memoria, Palazzo Chigi tenta anche di scaricare la responsabilità sui magistrati. Si legge che “il rilascio del cittadino libico non può essere attribuito a una mancanza di coordinamento tra gli organi statali, quanto piuttosto all’esito di un adeguato controllo giurisdizionale”. Peccato che i documenti interni dimostrino che il governo sapeva tutto, fino alle chat su Signal della capa di gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi, in cui si raccomandava “riservatezza”.
La Corte d’appello di Roma aveva chiesto chiarimenti e interlocuzioni. Nessuno rispose. E mentre Nordio dichiarava di “studiare le carte”, Almasri era già in volo verso Tripoli, libero di tornare tra le braccia dei suoi uomini. Un capolavoro di cinismo e dissimulazione.
Il generale libico non solo è tornato a casa, ma lo ha fatto senza che gli fossero sequestrati documenti o dispositivi utili alle indagini. L’Italia prova a giustificarsi dicendo che il mandato della Cpi non ne indicava l’importanza, ma il risultato è lo stesso: un presunto criminale di guerra oggi è di nuovo operativo, mentre il nostro Paese deve spiegare all’Europa e al mondo perché ha sabotato la giustizia internazionale.
La linea della “buona fede” invocata da Roma appare sempre più fragile. La memoria difensiva chiede ai giudici di considerare le scelte italiane “giuridicamente e logicamente rilevanti per dimostrare l’approccio legittimo e in buona fede dello Stato”. Ma la verità è che la posizione del governo è un castello di carte. Ogni nuovo dettaglio conferma che l’Italia ha scelto di piegarsi alle minacce di un torturatore, calpestando i propri obblighi internazionali e lasciando che la giustizia venisse derisa.
Ora la palla passa alla Corte penale internazionale. E se l’Aja deciderà per il deferimento, l’Italia rischia di trovarsi sul banco degli imputati non solo per inadempienza, ma per aver anteposto la paura alla legge. Un’umiliazione senza precedenti per un Paese fondatore dell’Unione europea, che ha sempre proclamato di difendere i diritti umani.