Palazzo Chigi smentito: la richiesta di estradizione arrivò dopo il rimpatrio

Palazzo Chigi

«La richiesta di estradizione della Libia è arrivata quando Almasri era stato già rimpatriato». «Si trattava di una richiesta meramente strumentale, priva di qualsiasi documento giustificativo: non avrebbe mai potuto trovare accoglimento». E ancora: «Io la richiesta libica non l’ho mai avuta per le mani. La valutazione per noi era prima politica, che non altro».

Le frasi chiave che emergono dagli atti dell’inchiesta sul rimpatrio del generale libico Almasri smentiscono apertamente la versione di Palazzo Chigi. Il governo ha cercato di ridimensionare l’imbarazzo politico per la vicenda, sostenendo di non aver potuto sapere che la Libia avrebbe arrestato l’uomo. Ma i documenti del tribunale dei ministri e le testimonianze dei dirigenti del ministero della Giustizia raccontano un’altra storia. Il primo elemento di contraddizione arriva proprio dalla ricostruzione ufficiale dei magistrati.

«Il 21 gennaio» scrivono nella richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri Mantovano, Nordio e Piantedosi «risultava consegnata brevi manu al ministero degli Esteri una nota da parte del procuratore generale dello Stato della Libia datata 20 gennaio». Si tratta del documento con cui Tripoli informava l’Italia dell’esistenza di un procedimento in corso contro Almasri per fatti analoghi a quelli contestati dalla Corte penale internazionale.

A quel punto, tuttavia, la macchina del rimpatrio era già in moto. Dai documenti acquisiti presso l’Aise risulta che la traduzione italiana della richiesta di estradizione era stata effettuata, a cura dell’ambasciata italiana a Tripoli, tra le 18:28 e le 20:02 del 21 gennaio 2025. In quelle stesse ore, il volo messo a disposizione dai Servizi segreti era già pronto a decollare per riportare Almasri in Libia. La nota venne poi trasmessa al ministero della Giustizia solo il giorno successivo, il 22 gennaio, quando la persona era già fuori dal territorio nazionale e, come annotano i giudici, «già rientrata in Libia».

È dunque evidente che la decisione di rimpatriare il generale non potesse basarsi su un documento formale, che il dicastero della Giustizia non aveva ancora ricevuto. «Si trattava di una richiesta meramente strumentale, priva di qualsiasi allegazione o documentazione» spiega Luigi Birritteri, capo del Dipartimento. «Non avrebbe mai potuto trovare accoglimento». Sulla stessa linea Cristina Lucchini, dirigente dell’Ufficio estradizioni, secondo cui quella nota non poteva essere considerata una vera richiesta di estradizione perché mancavano elementi fondamentali: «Non vi era una condanna ma soltanto un’indagine aperta». Il tribunale dei ministri sottolinea che la nota libica «faceva generico riferimento a inchieste in corso, senza indicare numero di procedimento né alcun provvedimento restrittivo della libertà personale da eseguire».

A complicare ulteriormente il quadro arrivano le parole della capo di gabinetto, Giusi Bartolozzi: «Io quella richiesta non l’ho mai avuta per le mani. La valutazione per noi era prima politica, che non altro». Una frase che chiarisce meglio di qualsiasi ricostruzione l’impostazione del governo. La scelta di rimandare in patria Almasri non rispondeva a criteri giudiziari ma a valutazioni di opportunità. Lo conferma anche il capo dell’Aise, Giovanni Caravelli, che ha dichiarato che il generale «non era stato né arrestato né destituito dal suo incarico» dopo il rientro e nemmeno nei mesi successivi.

Una “valutazione politica”, dunque, che sposta il baricentro della vicenda dal piano amministrativo a quello diplomatico. Perché Almasri non è un nome qualsiasi: per anni la sua milizia, la Rada, ha garantito all’Italia un controllo stretto sulle partenze dei migranti dalle coste libiche. La sua figura, controversa e discussa, ha rappresentato un perno dell’equilibrio fra Roma e Tripoli. Con il suo rimpatrio, l’esecutivo Meloni ha scelto di mantenere aperto quel canale, pur di assicurarsi la continuità dei risultati nella gestione dei flussi.

È una strategia fragile ma necessaria, che oggi si trova nuovamente messa alla prova. L’arresto in Libia di Almasri, poi la sua liberazione, hanno aperto un nuovo fronte di incertezza per la politica estera italiana. Il governo di Tripoli è diviso, le milizie si muovono in autonomia, e ogni gesto rischia di essere interpretato come un segnale politico. Per l’Italia, che da anni investe nel contenimento dei flussi e nella cooperazione economica, la priorità resta quella di garantire stabilità, anche a costo di gestire relazioni scomode.

Proprio per questo la Farnesina e il Viminale si preparano a nuove missioni. È prevista una visita del ministro Piantedosi, mentre oggi il sottosegretario agli Esteri Giorgio Silli sarà a Tripoli per la firma di un nuovo lotto autostradale. L’obiettivo è rafforzare la collaborazione, presentare la vicenda Almasri come un incidente di percorso e rilanciare la cooperazione sui migranti. Tajani, da parte sua, ha scelto la linea della distanza: «Almasri? Non me ne occupo», ha detto ai cronisti, chiudendo ogni domanda con una frase che suona più come un segnale politico che come una presa di posizione diplomatica.

La strada per la Libia, nonostante i nuovi cantieri e le promesse di investimenti, resta scivolosa per il governo. L’Italia deve preservare i propri interessi, senza apparire complice di operazioni opache. Ma la cronologia degli eventi e le testimonianze dei funzionari rivelano un dato inconfutabile: la richiesta di estradizione libica è arrivata quando il generale era già sul volo di Stato. Il governo può parlare di tempi burocratici e procedure complesse, ma resta una domanda inevasa: perché tanta fretta? La risposta, nelle parole della Bartolozzi, è già scritta. La valutazione era politica, non giudiziaria. E oggi quella scelta pesa come una responsabilità che nessuna smentita potrà cancellare.