Il governo italiano incassa uno schiaffo dal Lussemburgo. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha infatti stabilito che la designazione di Paesi terzi come “Paesi di origine sicuri” deve poter essere sottoposta a una revisione effettiva da parte dei giudici. Tradotto: non basta un atto politico del governo per decidere che un Paese sia sicuro ai fini dei rimpatri accelerati, se non esiste un controllo giurisdizionale concreto sulla conformità ai criteri sostanziali previsti dal diritto dell’Unione. Un verdetto che di fatto mette un macigno sulla strada dei centri per migranti in Albania, fiore all’occhiello della strategia di Giorgia Meloni, già mezzo vuoti e ora a rischio paralisi totale.
La Corte è chiara: uno Stato membro non può includere nella lista dei Paesi sicuri uno Stato che non garantisca protezione effettiva all’intera popolazione. Non basta che sia “abbastanza sicuro” o sicuro solo per alcune categorie di cittadini. La sentenza richiama alla lettera la direttiva europea e sottolinea che, almeno fino all’entrata in vigore del nuovo regolamento prevista per il giugno 2026, non esistono eccezioni per singole categorie di persone. Solo allora il legislatore europeo consentirà agli Stati di designare come sicuro un Paese con situazioni differenziate, introducendo eccezioni specifiche per i gruppi vulnerabili. Fino ad allora, la scorciatoia delle liste “a misura di Viminale” resta bloccata.
Il verdetto piomba come una doccia gelata sul piano del governo, che aveva scommesso politicamente e mediaticamente sui centri di Schengjin e Gjader. Nelle intenzioni, dovevano ospitare fino a 400 migranti salvati in mare e da sottoporre alle procedure accelerate di frontiera, con l’obiettivo di smistare in fretta richieste d’asilo e rimpatri. Nei fatti, da mesi le strutture accolgono una manciata di persone, tra le 25 e le 30, solo nella sezione Cpr destinata ai trattenimenti. Tutto il resto è rimasto desolatamente vuoto.
La Corte di Giustizia non si è limitata a definire un principio astratto, ma ha risposto ai quesiti posti dai giudici italiani e, in particolare, dalla Cassazione, cui il Viminale si era rivolto dopo una raffica di annullamenti dei trattenimenti. I magistrati volevano sapere se fosse legittimo dichiarare sicuro un Paese anche in presenza di zone a rischio o di categorie di persone esposte a violazioni dei diritti fondamentali. E ancora, se fosse possibile inserire in lista Stati in cui risultino accertate violazioni gravi delle tutele inderogabili previste dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La risposta della Corte è stata netta: no. E i giudici italiani che hanno annullato i provvedimenti del Viminale hanno agito nel pieno rispetto del diritto europeo.
Il colpo per Palazzo Chigi non è solo tecnico, ma anche politico. Da settimane si puntava a rilanciare i centri albanesi come simbolo della linea dura contro l’immigrazione irregolare, dopo le polemiche estive sugli sbarchi e sul sovraffollamento degli hotspot italiani. L’aspettativa era che Lussemburgo desse una sorta di “via libera implicita” alla linea italiana, anche alla luce delle recenti prese di posizione dei governi europei in favore di procedure di frontiera più rapide. Invece la Corte ha fatto prevalere la lettera delle norme e dei diritti fondamentali, spiazzando completamente il governo.
Ora il rischio è di trovarsi con un’operazione costosissima e priva di efficacia. Gli hotspot di Schengjin e Gjader non potranno essere riempiti con migranti provenienti da Paesi che l’Italia considera sicuri, come Tunisia, Egitto o Nigeria, finché non ci sarà il nuovo regolamento europeo. Né sarà possibile usare la scorciatoia delle procedure accelerate per liberarsi rapidamente dei richiedenti asilo destinati al respingimento. Ogni trattenimento, come ha già dimostrato la raffica di ricorsi vinti dagli avvocati delle associazioni umanitarie, rischia di essere annullato dai giudici nazionali sulla base proprio di questa interpretazione.
Nel frattempo, resta aperto uno spiraglio tecnico: il governo italiano potrà chiedere a Bruxelles di anticipare l’entrata in vigore delle nuove regole, previste dal Patto su migrazione e asilo e dal regolamento rimpatri, fissata per il 12 giugno 2026. Ma si tratta di un percorso politico complesso e tutt’altro che garantito, perché richiede un intervento del legislatore dell’Unione. E senza quel cambio di cornice normativa, l’Albania rischia di restare la cartolina di un’operazione incompiuta: centri fantasma, milioni spesi e la narrativa della “linea dura” che si scontra con i paletti di diritto europeo.
Per il governo è uno scenario imbarazzante. La premier Meloni aveva investito capitale politico sul progetto albanese come simbolo della capacità di innovare nella gestione dei flussi migratori, aggirando la lentezza e la rigidità delle procedure interne. Ma la realtà, sancita oggi dai giudici di Lussemburgo, è che l’Europa detta le regole del gioco e che nessuna scorciatoia nazionale può scavalcare le tutele minime dei richiedenti asilo. Finché il regolamento non cambierà, i centri in Albania resteranno un paradosso: pronti all’uso, ma vuoti. E ogni nuovo ricorso in tribunale rischia di trasformare una bandiera politica in un boomerang giudiziario.