“Non è all’ordine del giorno”. Con queste parole Giuseppe Conte ha chiuso ogni discussione sulla patrimoniale, prendendo le distanze dalla proposta rilanciata nei giorni scorsi da Elly Schlein. Poche parole, ma sufficienti per scatenare malumori e tensioni nel Movimento 5 Stelle, dove il tema di una tassa sui grandi patrimoni è da sempre una bandiera identitaria.
La segretaria del Pd aveva evocato la necessità di “intervenire sui grandi patrimoni, a livello europeo e meglio ancora internazionale”, aprendo un dibattito a sinistra. A quel punto Conte ha scelto di smarcarsi, spiegando che la patrimoniale non rientra nel programma dei 5 Stelle. Una mossa che, secondo i suoi collaboratori, risponde alla strategia di posizionare il Movimento su una linea più moderata, in vista del “campo largo” che dovrà affrontare le prossime elezioni politiche.
Dietro le quinte, tuttavia, la decisione ha provocato un terremoto. “Un’uscita infelice”, commentano alcuni parlamentari pentastellati. “Solo un anno fa abbiamo presentato un emendamento alla manovra per introdurre una patrimoniale progressiva sui patrimoni sopra i 4,5 milioni di euro, e ora diciamo che non è più una priorità?”.
Anche Pasquale Tridico, ex presidente dell’Inps e oggi europarlamentare M5S, ricorda che “fu il Movimento a proporre per primo una patrimoniale europea: un’imposta minima del 2% per i patrimoni sopra i 100 milioni di euro”. All’epoca Conte si era detto d’accordo. Oggi, invece, il leader grillino appare più prudente, convinto che l’idea di una tassa sui ricchi sia un terreno minato su cui la destra non aspetta altro per colpire. “Non voglio che Meloni e Salvini mi descrivano come uno che toglie soldi ai cittadini”, avrebbe detto ai suoi.
Il cambio di rotta ha irritato molti, a partire da Chiara Appendino, che sui social ha ribadito: “Una tassa di solidarietà per i super-Paperoni non è ideologia, è giustizia sociale. Il M5S non può sottrarsi a questa battaglia”. Più misurato Roberto Fico, oggi candidato alla presidenza della Campania, ma altrettanto netto nei principi: “La nostra Costituzione prevede la proporzionalità delle imposte: chi ha di più deve dare a chi ha di meno. Non possiamo dimenticarlo”.
Nel Movimento, la linea ufficiale resta quella della disciplina: nessuno vuole aprire uno scontro diretto con Conte, rieletto da poco presidente. Ma le crepe sono visibili. Da tempo, l’ex premier è accusato da una parte dei suoi di voler “normalizzare” il M5S, trasformandolo in una forza di governo moderata e istituzionale. “Non può inseguire il centro se vuole restare riconoscibile”, mormora un deputato storico.
Conte, dal canto suo, rivendica il pragmatismo: “Non è il momento delle bandiere ideologiche, ma delle proposte concrete”. Dietro la formula diplomatica c’è la volontà di presentarsi come figura affidabile per l’intero fronte progressista, non solo per la sinistra radicale. Un’operazione politica che, però, rischia di lasciare sul campo pezzi del Movimento legati alle origini: quel M5S “antisistema” che predicava redistribuzione e giustizia sociale, e che oggi fatica a riconoscersi in un linguaggio più istituzionale.
Il dibattito, in realtà, non riguarda solo le tasse, ma l’identità stessa del Movimento. Dove deve collocarsi Conte? Nella sinistra riformista di Schlein o in un’area centrista che strizzi l’occhio agli ex grillini delusi e ai moderati orfani del Terzo Polo? Per ora il leader evita di schierarsi apertamente, consapevole che ogni parola potrebbe essere usata contro di lui. Ma la tensione resta alta.
Perfino all’interno del gruppo parlamentare, si moltiplicano i segnali di insofferenza. Alcuni senatori hanno ricordato come, fino a pochi mesi fa, Conte parlasse apertamente di “tassazione equa” e di “redistribuzione dei redditi”. Ora il linguaggio è cambiato, e molti temono che anche l’anima sociale del Movimento sia destinata a sbiadire.
Intanto, gli alleati osservano. Dal Pd trapela irritazione per lo stop improvviso del leader M5S, mentre in Europa la proposta Tridico continua a raccogliere consensi tra gli economisti progressisti. E persino tra i militanti, sui social, si respira delusione: “Abbiamo sempre difeso gli ultimi – scrive un attivista – ora sembriamo quelli che li dimenticano”.
Nel gioco degli equilibri del “campo largo”, Conte sceglie la prudenza. Ma la distanza da Schlein e dai movimenti sociali potrebbe diventare un problema politico vero. Perché se il leader 5 Stelle vuole accreditarsi come volto affidabile della coalizione, dovrà prima rispondere a una domanda che arriva dalla sua stessa base: dov’è finito il Movimento che voleva cambiare tutto, a partire dalle disuguaglianze?







