È stata una notte di abbordaggi e sequestri in mare, con decine di imbarcazioni fermate dalla Marina israeliana e attivisti italiani tra i passeggeri. E, mentre si moltiplicano le immagini dei parlamentari fermati e i video di denuncia diffusi prima del blackout, a terra monta un’altra discussione: cosa rischiano, giuridicamente, i cittadini italiani che hanno preso parte alla Flotilla?
Sui social è rimbalzata in queste ore una tesi che parla di carcere certo, citando l’articolo 244 del codice penale: “atti ostili verso uno Stato estero”. La norma prevede fino a diciotto anni di reclusione per chi, senza l’approvazione del governo, compia atti che possano esporre l’Italia al pericolo di guerra, e pene ancora più pesanti in caso di conflitti effettivi. Ma davvero si applica a chi, a bordo di piccole barche cariche di medicinali e viveri, ha sfidato il blocco israeliano?
Per capirlo bisogna distinguere il terreno delle polemiche politiche da quello delle regole giuridiche.
La missione della Global Sumud Flotilla si presenta come civile, disarmata e non violenta. Le barche trasportano beni di prima necessità e l’obiettivo dichiarato dagli organizzatori è rompere simbolicamente l’assedio a Gaza. Non c’è coordinamento con gruppi armati, non ci sono milizie a bordo né forme di ingaggio militare. Al contrario, gli attivisti hanno più volte ribadito la loro adesione ai principi della non violenza.
Perché scatti l’articolo 244, spiegano i giuristi, non basta un atto “sgradito” a un altro Stato. Deve trattarsi di un’azione oggettivamente ostile, capace di esporre l’Italia a un rischio concreto di rappresaglie, rotture diplomatiche o persino guerra. Non un gesto simbolico o politico, ma un atto operativo, effettivo, che faccia temere conseguenze dirette sul piano internazionale.
In passato la Cassazione ha chiarito che manifestazioni, proteste o azioni civili non violente, pur se condotte all’estero e in contrasto con un governo straniero, non rientrano nel perimetro degli “atti ostili”. La nozione giuridica richiede un salto di qualità: arruolamenti, sabotaggi, azioni armate, non certo la partecipazione a una spedizione umanitaria.
Certo, l’articolo 244 è un reato di “pericolo”, che non richiede l’effettivo scoppio di una guerra o di rappresaglie. Ma serve comunque che la condotta abbia un’idoneità concreta a provocare quegli scenari. E qui il quadro è chiaro: nessun segnale di crisi diplomatica tra Italia e Israele, nessuna ritorsione annunciata contro Roma. I rapporti bilaterali restano intatti.
Da questo punto di vista, il governo italiano può criticare l’iniziativa, come già fatto, ma non ci sono i presupposti giuridici per aprire un fascicolo penale. A confermarlo, diversi esperti di diritto internazionale: «Il rischio teorico non basta. Serve un atto effettivamente ostile, non una missione pacifista che si richiama al diritto umanitario internazionale».
Anche il tema delle acque territoriali aggiunge complessità. Le barche sono state fermate in acque internazionali, non sotto sovranità israeliana. Israele rivendica la legittimità del blocco navale, ma organismi come la Corte internazionale di giustizia hanno più volte sottolineato l’illegalità delle restrizioni imposte a Gaza. In questo scenario, parlare di “atti ostili” da parte degli attivisti rischia di ribaltare il piano della responsabilità: sono loro a denunciare crimini di guerra, non a compierli.
Infine, un elemento pratico: nessuna procura italiana ha aperto procedimenti a carico di chi ha partecipato alle missioni precedenti. Dal 2010 in avanti, dopo l’assalto alla Mavi Marmara, centinaia di attivisti italiani hanno preso parte a varie spedizioni senza che sia mai stato contestato l’articolo 244. E nulla lascia immaginare che stavolta andrà diversamente.
In sintesi: la norma esiste, è severa, ma non riguarda gli attivisti della Flotilla. Non c’è arruolamento, non c’è ostilità armata, non c’è rischio concreto di rappresaglie contro l’Italia. Politicamente si può discutere di opportunità, ma penalmente non c’è materia.
Il vero rischio, per chi era a bordo, resta quello di essere fermato da Israele, portato ad Ashdod e poi espulso. Ma una volta tornati a casa, dal punto di vista del codice penale italiano, non ci sarà alcun processo.