Gentiloni striglia Schlein e Conte: «Non è il Campo largo la sfida del futuro, ma la fedeltà all’Europa»

Paolo Gentiloni

Paolo Gentiloni non alza la voce, ma le sue parole pesano come macigni. «Per il centrosinistra c’è ancora molto da fare per costruire un’alternativa credibile», ha detto dal palco della festa del Foglio, a Firenze. È un intervento di dieci minuti, misurato nei toni ma chirurgico nei contenuti: una riflessione che somiglia a una diagnosi, con dentro l’amarezza di chi vede il suo partito smarrire la bussola europeista per inseguire slogan e piazze.

L’ex commissario europeo non cita mai Elly Schlein, ma ogni frase sembra indirizzata al Nazareno. «C’è bisogno di un chiarimento con il Movimento 5 Stelle, ma non sul Campo largo», premette. E subito dopo affonda il punto politico: «Il discrimine vero sta nella difesa europea e nell’Ucraina. La frontiera europea sarà la questione politica dei prossimi anni, e sbaglia chi pensa di metterla di lato. Da quanto sapremo sostenere l’Unione europea dipenderà quanto saremo liberi e forti nei prossimi anni».

Il messaggio è diretto: non si può parlare di alleanze se non c’è una visione comune sull’Europa e sulla guerra. Gentiloni teme che il Pd finisca schiacciato tra i pacifismi facili dei grillini e l’antagonismo di Avs, e richiama il partito a una cultura di governo fondata su realismo e responsabilità. Un discorso che sa di ammonimento: se la sinistra rinuncia al suo dna europeista, perde se stessa.

A raccogliere la provocazione è Carlo Calenda, che con il solito piglio spazza via ogni diplomazia. «Il Campo largo finirà con Giuseppe Conte candidato premier», dice tra gli applausi e qualche fischio. «I 5 Stelle sono pericolosi populisti. Il Pd aveva una cultura di governo, ma è stata mangiata da M5S e Avs. La sinistra oggi ospita pro cinesi e pro russi, come pure Vannacci e Salvini sono legati alla Russia di Putin. Io con i filorussi e i filocinesi non ci sto insieme. Per noi sono nemici dell’Occidente».

È la linea Calenda in purezza: senza una piattaforma occidentale e liberale condivisa, non c’è spazio per nessuna alleanza. La sua invettiva scuote il pubblico, tra chi annuisce e chi scuote la testa, ma il concetto passa. Lo stesso Gentiloni, pur mantenendo toni istituzionali, sembra condividere la sostanza: il rischio che il Pd si trasformi in un contenitore indistinto di sigle e movimenti, incapace di proporsi come forza credibile di governo.

Il confronto al Foglio si trasforma così in un piccolo congresso all’aperto del riformismo italiano. Sul palco, oltre a Gentiloni e Calenda, sfilano parlamentari europei, amministratori locali e qualche vecchio big dem. C’è Pina Picierno, che riassume con lucidità il senso del momento: «La solitudine del riformista è ormai un genere letterario. Ma è necessario spiegare che fare politica non significa sventolare bandiere identitarie. Se vogliamo costruire un’alternativa possibile, serve una cultura di governo e il coraggio di andare controvento».

Dietro le quinte, i parlamentari dem commentano in silenzio. La sconfitta nelle Marche e il flop in Calabria hanno riaperto la resa dei conti interna, con la minoranza che accusa Schlein di aver trascinato il partito troppo a sinistra, lasciando scoperto il centro riformista. Le parole di Gentiloni sono viste come un tentativo di risvegliare quella parte moderata e liberal che oggi si sente ai margini.

In controluce, però, si legge anche un messaggio più ampio. Il commissario uscente avverte che la prossima sfida non sarà più tra destra e sinistra, ma tra europeisti e sovranisti. «La frontiera dell’Europa – ha ripetuto – sarà la vera linea di divisione politica dei prossimi anni». È un modo per dire che la questione Ucraina, la difesa comune, la politica industriale europea saranno i terreni sui quali si misurerà la credibilità di ogni forza politica.

Calenda, da parte sua, coglie l’occasione per definire una linea di separazione netta. «Non possiamo pensare di costruire il futuro del Paese con chi flirta con Mosca o con Pechino», dichiara. «Serve un campo riformista serio, europeista, non un fronte improvvisato di bandiere che si amano solo quando perdono».

La sensazione, alla fine del dibattito, è che le parole di Gentiloni abbiano messo il dito nella piaga. Il Pd, oggi, è stretto tra la tentazione di abbracciare un’alleanza larga ma incoerente e la necessità di ritrovare una visione autonoma. La domanda resta la stessa che attraversa il partito da mesi: come tenere insieme pragmatismo e ideali senza scivolare nel populismo?

L’ex premier non offre soluzioni, ma un avvertimento: «Chi pensa che l’Europa sia un tema secondario, si sbaglia. È lì che si gioca il futuro della sinistra». Una frase che suona come una sveglia per il Nazareno. Perché, in fondo, è l’Europa – non il Campo largo – la vera linea rossa che decide da che parte si sta.