Il referendum di cui nessuno parla: 8 e 9 giugno si vota

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IL’8 e il 9 giugno 2025 l’Italia sarà chiamata a dire una parola. E non sarà una parola qualunque. Sarà un “sì” o un “no”, inciso su una scheda elettorale. Sarà una parola che non grida, non scende in piazza, non incendia il cielo: ma che decide.  Decidere se un Paese può ancora essere fondato sul lavoro, oppure sulla precarietà. Sulla dignità, oppure sulla paura. Sull’uguaglianza, oppure sull’esclusione.

Cinque referendum. Cinque domande. Cinque ferite aperte nel corpo sociale. E la possibilità di toccarle, finalmente, non per punirle, ma per guarirle. Sono ferite che sanguinano da anni, coperte da sigle burocratiche, da silenzi parlamentari, da scelte scambiate per modernità: Jobs Act, appalti, tutele crescenti, contratti a termine, residenza, cittadinanza. Termini che suonano tecnici, neutri, amministrativi. Ma dietro quelle parole ci sono corpi. Corpi licenziati, sfruttati, invisibili. Corpi che lavorano e muoiono. Corpi che aspettano un diritto, un risarcimento, un permesso, un documento, una risposta.

Il primo quesito chiede se chi viene licenziato ingiustamente ha diritto a tornare al proprio posto. Una domanda semplice, atrocemente semplice. Oggi no, non sempre. Se vieni cacciato senza motivo, puoi essere liquidato con denaro, come una merce restituita con lo scontrino. Il referendum vuole dire: questo non è abbastanza. Vuole ridare il diritto al ritorno, il diritto a essere riconosciuti nella propria funzione, nella propria identità, nella propria storia. Vuole tornare all’articolo 18, quello che proteggeva non solo il lavoro, ma la coscienza del lavoratore.

Il secondo riguarda chi lavora in piccole imprese. Sono milioni. Oggi, se vengono licenziati senza giusta causa, hanno diritto al massimo a sei mensilità. Sei. Anche se il giudice riconosce l’ingiustizia, anche se l’azienda ha sbagliato, anche se si tratta di un abuso evidente. Sei mensilità per chi ha spesso dato anni, decenni, di vita. Il referendum vuole dare al giudice la possibilità di decidere caso per caso. Vuole restituire giustizia alla giustizia.

Poi c’è il tempo. Il tempo determinato. Il tempo che scade. Il contratto che inizia già morendo. Il referendum vuole chiedere una sola cosa: che si spieghi perché. Che un datore dica il motivo per cui assume a termine. Oggi può farlo liberamente, senza causale, fino a dodici mesi. Domani – se vince il sì – dovrà motivarlo sempre. Perché il lavoro non è un favore, non è un’opzione, non è una moneta da scambiare: è una necessità, è un’identità, è un diritto.

Il quarto quesito è quello della responsabilità. Chi appalta un lavoro può oggi lavarsene le mani se un operaio si ferisce o muore, purché l’incidente sia legato a un “rischio specifico” dell’impresa che ha eseguito i lavori. Un’astrazione giuridica che scarica la colpa verso il basso, dove stanno i corpi che cadono dai ponteggi. Il referendum dice: no, la catena della responsabilità deve comprendere tutti. Se muore un lavoratore, il dolore deve salire. Fino a chi ha deciso, a chi ha firmato, a chi ha pagato per quel lavoro.

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E poi la cittadinanza. Il diritto di appartenere. Oggi servono dieci anni di attesa, di silenzi, di domande respinte, per chiedere – solo chiedere – di essere riconosciuti cittadini. Il referendum vuole dire che cinque sono abbastanza. Cinque anni di vita vera, di lavoro, di scuola, di figli nati in Italia, di contributi versati. Eppure su questo quesito si alza la nebbia più fitta: partiti che si defilano, politici che si trincerano dietro la libertà di coscienza. Ma la coscienza, quella vera, è dire che esiste un popolo italiano che non nasce solo nei registri, ma nelle strade, nei cantieri, nei banchi di scuola, nei corridoi degli ospedali.

Tutto questo non accadrà se non andremo a votare. Perché il referendum, in Italia, è uno strumento fragile. Ha bisogno del quorum. Ha bisogno che metà degli italiani più uno si alzino, escano, e dicano: io ci sono. La maggioranza di governo, lo sappiamo, ha scelto l’astensione. La non-parola. Il silenzio che diventa potere. Il vuoto che diventa veto. Ma chi si astiene non si smarca: collabora. Sceglie di non scegliere, sapendo che così la scelta sarà quella già scritta, quella del più forte.

Io, invece, dico: andate. Non importa come voterete. Ma andate. Perché ogni scheda è un gesto. È un atto. È una dichiarazione. È una voce. È una presa di parola in un Paese che da troppo tempo si lascia parlare solo dal potere.

Andate, perché ognuna di quelle cinque domande è una domanda sulla nostra idea di giustizia, di società, di umanità. Cinque domande su ciò che siamo, e su ciò che possiamo ancora essere. Non si tratta solo di leggi, ma di visioni. Di futuro. Di memoria.

Perché votare, oggi, non è scegliere un campo: è scegliere di esserci. Di dire “io ci sono”. Di non lasciare che la democrazia sia solo un gesto in mano ad altri. Di far sentire che, ancora una volta, la coscienza non è silenzio, ma parola.

di Francesco Vilotta