Il referendum è malato da tempo: arriva il colpo di grazia?

referendum

Il referendum abrogativo in Italia è malato da tempo. Ma il voto dell’8 e 9 giugno 2025 rischia di rappresentare il colpo di grazia. Nessuno dei cinque quesiti ha raggiunto il quorum del 50% più uno degli aventi diritto. Ancora una volta, non si è votato nel merito, ma si è affossato lo strumento. A dispetto di temi di grande rilevanza, cittadinanza, giustizia, autonomia, la partecipazione si è fermata a un desolante 22,73 alle 23:00 di domenica. Forse arriverà al 30% al termine delle operazioni di lunedì 9. 

È la conferma di un trend negativo inarrestabile: se non si cambia la legge, il referendum rischia l’estinzione.

I dati parlano chiaro. Negli ultimi vent’anni, su 16 quesiti sottoposti a voto popolare, solo 1 ha superato il quorum. Nel 2022, i referendum sulla giustizia si fermarono intorno al 21%. Oggi, a distanza di tre anni, la situazione non è migliorata, nonostante un contesto politicamente più infuocato e temi potenzialmente divisivi. La riforma della cittadinanza non ha mobilitato gli elettori.

Ma non è solo disaffezione. Il vero ostacolo è strutturale: un quorum pensato in un’altra epoca, oggi del tutto irrealistico. Alle elezioni europee del 2024 ha votato poco più del 49% degli aventi diritto. Le ultime politiche del 2022 si sono fermate al 63,9%, ma con un calo costante. In molte elezioni regionali e comunali l’affluenza non arriva più al 50%. Pretendere che lo faccia per un referendum, senza campagne pubblicitarie, senza veri dibattiti e senza una soglia di coinvolgimento emotivo paragonabile a quella delle elezioni, è utopia.

Il referendum abrogativo, introdotto dalla Costituzione (art. 75), è stato uno dei pilastri della stagione democratica repubblicana. Ha rappresentato la voce diretta del popolo su scelte cruciali: dal divorzio (1974) all’aborto (1981), dal nucleare (1987) alla responsabilità civile dei magistrati (1987), fino alla privatizzazione dei servizi pubblici locali (2011). Proprio nel 2011, con oltre il 57% dei votanti, i cittadini abrogarono il “nucleare di ritorno” e il “profitto sull’acqua”. Fu l’ultimo vero successo. Poi il declino.

Oggi lo strumento è prigioniero di una contraddizione: essere “di tutti” ma dipendere da regole che ne rendono quasi impossibile l’uso. I comitati promotori devono raccogliere almeno 500.000 firme (non digitali), affrontare una macchina burocratica elefantiaca, spesso senza risorse, e infine sfidare il quorum.

Il paradosso è che l’astensione, anche organizzata, diventa arma politica. Se un partito o una coalizione è contraria a un quesito, invece di difendere le proprie idee nel dibattito pubblico, invita a non votare. E vince. Non con il confronto, ma col silenzio. È una distorsione democratica.

Il confronto europeo e le ipotesi di riforma

L’Italia è tra i pochi Paesi europei a mantenere un quorum così elevato per i referendum abrogativi. In Svizzera, patria della democrazia diretta, non esiste quorum: vale la maggioranza dei votanti. In Germania, il referendum a livello federale non è previsto, salvo rare eccezioni costituzionali. In Spagna è solo consultivo. Ma dove esiste, come in Slovenia o in Croazia, la tendenza è a soglie molto più basse o a meccanismi più flessibili.

In Italia si discute da anni di una riforma. Le proposte più accreditate sono tre:

  • Eliminare del tutto il quorum, come in Svizzera, lasciando decidere alla maggioranza dei votanti effettivi.
  • Abbassare il quorum al 25% o al 30%, per renderlo più realistico.
  • Introdurre il referendum propositivo e deliberativo, come auspicato anche dalla riforma costituzionale tentata nel 2016, per rafforzare il ruolo attivo dei cittadini.

La partecipazione popolare non si stimola solo con le regole, ma anche con l’informazione e la trasparenza. Il referendum dell’8-9 giugno 2025 è stato ignorato dai grandi media, poco discusso nei talk show, assente nei social media se non in nicchie militanti. Nessun coinvolgimento delle scuole, nessuna campagna pubblica istituzionale, poca chiarezza nei quesiti. È come se il Paese fosse chiamato a decidere, ma in un clima di apatia istituzionalizzata.

Il risultato è che a decidere di non decidere è stata la maggioranza degli italiani. Ma questo non è un segnale di maturità democratica. È il fallimento di uno strumento lasciato marcire. Se il Parlamento non interverrà, il referendum abrogativo rischia di diventare un fossile costituzionale: formalmente esistente, ma politicamente irrilevante.

In un’epoca di sfiducia nelle istituzioni, rianimare la partecipazione dal basso dovrebbe essere una priorità. Salvare il referendum non è un capriccio giuridico: è un atto di rispetto verso la sovranità popolare. Ma per farlo, bisogna avere il coraggio di cambiare.

Bruno Mirante