Il 21 maggio l’ISTAT ha pubblicato il suo Rapporto annuale 2025, un documento che rappresenta una delle più complete analisi sullo stato sociale ed economico del Paese. I dati contenuti smentiscono con forza alcune delle affermazioni ripetute nelle scorse settimane dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, secondo cui i salari italiani sarebbero finalmente tornati a crescere, superando l’inflazione e facendo meglio del resto d’Europa.
Meloni aveva sostenuto questa tesi in un video pubblicato sui social a fine aprile e poi durante i suoi interventi parlamentari, affermando che tra il 2013 e il 2022 il potere d’acquisto degli italiani era calato, a differenza di quanto accaduto in Europa, ma che grazie all’azione del suo governo si sarebbe verificata una “netta inversione di tendenza” a partire da ottobre 2023. Una narrazione che, tuttavia, non regge all’urto dei numeri.
Secondo il Rapporto annuale 2025, tra il 2013 e il 2023 il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde annue per dipendente in Italia è diminuito del 4,5% in termini reali, ovvero tenendo conto dell’inflazione. Nello stesso periodo, in Germania è aumentato del 7%, in Francia del 4,3% e in media nell’area euro si è registrato un incremento dell’1,8%.
Ancora più rilevante è il dato sull’anno 2023, il primo interamente sotto il governo Meloni: le retribuzioni reali sono diminuite dello 0,7% rispetto al 2022, in un contesto in cui l’inflazione si è mantenuta elevata, mentre l’adeguamento dei salari non è riuscito a compensarne gli effetti.
Nel primo trimestre del 2024 la tendenza ha mostrato un leggero miglioramento, con una crescita delle retribuzioni contrattuali orarie dello 0,8% in termini reali rispetto allo stesso periodo del 2023. Ma si tratta di un incremento ancora fragile, dovuto più al rallentamento dell’inflazione (scesa sotto il 2%) e alla firma di alcuni rinnovi contrattuali attesi da tempo che a un vero cambio strutturale nel mercato del lavoro.
La chiave dell’equivoco sta nel tipo di dati utilizzati. Meloni ha spesso mescolato due indicatori diversi:
- Le retribuzioni lorde annue per dipendente in termini reali, che rappresentano l’intero compenso percepito in un anno, comprensivo di bonus, straordinari e benefit, e corretto per l’inflazione. Questo è l’indicatore standard per valutare l’andamento del potere d’acquisto dei lavoratori.
- Le retribuzioni contrattuali orarie, che misurano solo la paga oraria lorda prevista dai contratti collettivi, indipendentemente dalle ore lavorate effettive o da altri compensi accessori.
- Le retribuzioni contrattuali orarie hanno effettivamente ricominciato a salire nella seconda metà del 2023, ma rimangono inferiori rispetto ai livelli del 2021 quando corrette per l’inflazione. Usarle come principale riferimento per affermare che i salari “sono cresciuti più dell’inflazione” è fuorviante, soprattutto se non si specifica il tipo di misura utilizzata.
Il confronto con l’Europa continua a essere impietoso. L’Italia resta tra i pochi Paesi dell’UE in cui i salari reali non sono tornati ai livelli pre-pandemia. Tra le cause principali, secondo l’ISTAT, ci sono:
- La lentezza nel rinnovo dei contratti collettivi: a fine 2024 oltre il 40% dei lavoratori italiani risultava ancora con un contratto scaduto.
- Una produttività stagnante: tra il 2010 e il 2023, la produttività del lavoro in Italia è cresciuta solo del 2,1%, contro una media UE del 9,3%.
- Un mercato del lavoro polarizzato, in cui crescono i contratti precari e part-time involontari, che abbassano la media delle retribuzioni effettive.
I dati ISTAT mostrano con chiarezza che l’Italia è ancora lontana da una vera ripresa salariale. Le dichiarazioni ottimistiche della presidente del Consiglio si scontrano con una realtà fatta di aumenti limitati, differenze tra indicatori mal comprese o volutamente confuse, e una mancanza di interventi strutturali per rafforzare la contrattazione, incentivare la produttività e ridurre la precarietà.
Se il governo vuole davvero invertire la rotta, non può accontentarsi dei numeri favorevoli su base trimestrale o degli effetti temporanei dei rinnovi contrattuali. Serve una strategia organica che metta al centro la dignità del lavoro, la crescita delle competenze e un sistema fiscale che non penalizzi i redditi medio-bassi.
Per ora, il Rapporto ISTAT 2025 resta un richiamo alla realtà. E ci ricorda che, anche in economia, i dati contano più della narrazione.