All’interno del nuovo Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021-2027 (PSNAI), presentato all’inizio dell’estate con anni di ritardo, compare un passaggio inquietante. A pagina 45, all’interno dell’“Obiettivo 4”, si legge che alcune zone del Paese necessitano di “un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento”. Non si parla di rilancio, né di investimenti: si prende atto del fallimento e lo si gestisce come se fosse inevitabile.
Questa affermazione non è casuale, né frutto di una distrazione: è l’espressione consapevole di un nuovo approccio istituzionale nei confronti di migliaia di Comuni italiani, perlopiù montani e rurali. È una svolta culturale prima ancora che amministrativa: lo Stato non tenta più di contrastare l’abbandono di questi territori, ma ne prevede la decadenza. E la legittima.
Le Aree Interne rappresentano quasi 4.000 Comuni, sparsi in tutte le regioni, lontani dai centri dove si concentrano i principali servizi pubblici: scuole, ospedali, trasporti. Parliamo di oltre 13 milioni di persone, circa un quarto della popolazione italiana, che vivono su più della metà del territorio nazionale. Sono comunità che custodiscono paesaggi, tradizioni, biodiversità e forme di solidarietà ancora vive. Eppure, ora ricevono un verdetto: non saranno più sostenute nella lotta contro lo spopolamento.
Nel PSNAI si opera una selezione: da un lato i territori ritenuti ancora “salvabili”, dall’altro quelli per cui si considera inutile ogni tentativo di rilancio. Le aree del secondo tipo, si spiega nel documento, presentano un grave squilibrio demografico e scarse prospettive di sviluppo. Pertanto, non saranno più destinatarie di politiche attive: niente incentivi per trattenere giovani, nessun piano per riportare servizi, solo misure assistenziali minime per gestire l’inesorabile estinzione.
Una logica del genere contraddice apertamente il principio costituzionale dell’uguaglianza sostanziale, secondo cui lo Stato deve rimuovere gli ostacoli che limitano la partecipazione dei cittadini. Invece, si adottano criteri tecnocratici – tempi di percorrenza, densità abitativa, indicatori standard – che ignorano le storie, le relazioni, le specificità culturali dei luoghi. Le conseguenze sono tutt’altro che astratte: si rafforza la concentrazione di risorse nelle aree urbane e si condanna l’Italia periferica a un ruolo residuale.
Ma proprio in questi territori ci sarebbe spazio per un progetto di futuro: dalla transizione ecologica all’agricoltura di qualità, dal turismo esperienziale alla protezione del suolo e delle acque. Altrove in Europa, le zone rurali vengono tutelate con strumenti istituzionali e investimenti mirati. In Italia, invece, si parla di restanza e, al contempo, si abdica alla responsabilità di governare l’equilibrio territoriale, preferendo una gestione rassegnata del declino.
Le comunità delle Aree Interne non cercano assistenza né gesti simbolici: chiedono strumenti concreti, pari dignità, nonché la possibilità di contribuire attivamente al futuro del Paese. Considerare questi territori soltanto come problemi da gestire o ridurli a numeri negativi significa adottare una visione ristretta e ingiusta. Quando lo Stato abdica al compito di tenere unito il proprio spazio civile e sociale, accettando di fatto che ampie porzioni del suo territorio vengano escluse, rinuncia al principio stesso di cittadinanza condivisa e, come ha già scritto qualcuno, smette progressivamente di essere una Repubblica.
di Alessandro Gaudio