C’era una volta un partito che rappresentava milioni di italiani, che parlava alle fabbriche e alle campagne, che aveva una visione del mondo radicalmente alternativa all’Occidente capitalistico. Era il Partito Comunista Italiano, nato nel fuoco delle rivoluzioni del primo Novecento, sopravvissuto a guerre, scissioni, tragedie e illusioni, capace di farsi Stato nello Stato, ma anche di cambiare pelle e idee fino alla sua dissoluzione. La sua storia è quella di una parabola politica unica in Europa: comincia con un atto di rottura, attraversa decenni di fedeltà (e sospetti) verso Mosca, approda a una revisione profonda dell’identità comunista e si chiude in un’Italia che non riconosce più il suo linguaggio. Oggi, in un panorama politico frammentato, confuso, carente di visione e radicamento popolare, quella storia sembra mancare più di quanto si sia disposti ad ammettere.
Le origini: una sfida rivoluzionaria all’Occidente
Il PCI nacque a Livorno nel 1921, come Partito Comunista d’Italia, in seguito alla scissione dal Partito Socialista. Fu un atto violento, ideologico, ispirato direttamente dalla Rivoluzione d’Ottobre e dal modello leninista. Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga ne furono tra i principali promotori. In un’Italia ancora contadina, ferita dalla Grande Guerra e scossa dall’ascesa del fascismo, il nuovo partito si presentava come il braccio italiano dell’Internazionale comunista: disciplinato, minoritario, ma fedele alla parola d’ordine della rivoluzione proletaria.
Durante il ventennio fascista, il PCI operò nella clandestinità. Gramsci fu arrestato e morirà in prigione nel 1937, ma i suoi Quaderni dal carcere diventeranno la base teorica del comunismo italiano del dopoguerra. La Resistenza segnerà la rinascita del partito e la sua legittimazione: migliaia di partigiani comunisti contribuirono a liberare l’Italia, e da quel momento il PCI divenne una delle forze fondamentali della nuova Repubblica.
Il dopoguerra e il doppio legame con Mosca
Nel 1948, con la guerra fredda ormai in atto, il PCI divenne ufficialmente il partito dell’opposizione permanente. Legato all’Unione Sovietica non solo ideologicamente, ma anche logisticamente (con finanziamenti e indirizzi politici), il partito di Palmiro Togliatti si muoveva su un crinale difficile: da un lato, voleva essere partito di massa, radicato nella democrazia italiana; dall’altro, non poteva rinnegare l’alleanza strategica con Mosca.
Eppure, proprio Togliatti fu protagonista di un momento simbolico di unità nazionale. Nel 1948, dopo l’attentato che lo ferì gravemente, fu lui a chiedere ai suoi compagni di evitare la rivolta, salvando di fatto la fragile democrazia repubblicana. Era il primo segnale che il PCI italiano stava prendendo una strada diversa rispetto agli altri partiti comunisti dell’Est.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, pur mantenendo una linea marxista-leninista, il partito sviluppò una prassi di opposizione democratica: forte nei sindacati, nelle regioni rosse, nei Comuni e nelle Province. Ma restava fuori da ogni alleanza di governo.
Gli anni di piombo e il “compromesso storico”
Gli anni Settanta furono il banco di prova definitivo. La crisi economica, il terrorismo, le tensioni internazionali misero in discussione gli equilibri della prima Repubblica. Il segretario Enrico Berlinguer, dopo il colpo di Stato in Cile del 1973, comprese che la sinistra non avrebbe mai governato senza un’alleanza con le forze cattoliche: nacque così l’idea del compromesso storico con la Democrazia Cristiana.
Un’intesa mai pienamente realizzata, ma che segnò un cambiamento epocale. Quando nel 1978 fu rapito e poi ucciso Aldo Moro, Berlinguer fu tra i più convinti nel sostenere la linea della fermezza: un altro passaggio in cui i comunisti italiani si schierarono a difesa dello Stato.
Ma fu anche il periodo dello strappo da Mosca: dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan e il raffreddamento dei rapporti con il blocco orientale, il PCI di Berlinguer cominciò a definirsi comunista italiano, autonomo, democratico, eurocomunista. Un comunismo non più sovietico, ma riformista.
La fine del PCI e la nascita della galassia progressista
La morte improvvisa di Berlinguer nel 1984, durante un comizio a Padova, chiuse un’epoca. Dopo di lui, il partito visse una lunga agonia. Le rivoluzioni del 1989, la caduta del Muro di Berlino e la crisi dell’URSS resero evidente l’insostenibilità del vecchio impianto ideologico.
Nel 1989-1991, con la svolta della Bolognina, Achille Occhetto propose il cambio del nome, del simbolo, dell’identità. Il PCI si sciolse nel 1991 e nacque il Partito Democratico della Sinistra (PDS), poi i Democratici di Sinistra, infine, nel 2007, il Partito Democratico, frutto dell’unione con ex democristiani, verdi, socialisti, liberali.
Una mutazione genetica che mirava a rendere la sinistra italiana moderna, governativa, europea. Ma che lasciò dietro di sé un senso di smarrimento profondo: milioni di ex militanti, quadri, operai si sentirono orfani. Da allora, una galassia di piccoli partiti comunisti è nata e morta senza lasciare traccia.
Il PCI è stato il più grande partito comunista dell’Occidente: alle elezioni del 1976 sfiorò il 35% dei voti, con 12 milioni di elettori. Ma non è solo una questione numerica. Era un partito radicato nel territorio, con una visione del mondo, scuole di formazione politica, sezioni attive, feste popolari, giornali, cooperative, mutualismo, cultura. Ha saputo esprimere figure come Gramsci, Berlinguer, Ingrao, Napolitano, Nilde Iotti, e ha partecipato alla costruzione dell’Italia repubblicana pur stando all’opposizione.
Oggi, in un’Italia confusa, con una sinistra smarrita e incapace di parlare ai ceti popolari, quel patrimonio politico, culturale ed etico manca profondamente. Non si tratta di tornare al comunismo del Novecento, ma di riconoscere che quella esperienza seppe tenere insieme giustizia sociale, rigore morale, autonomia strategica e radicamento popolare. Tutte cose che oggi sembrano evaporate.
Il Partito Comunista Italiano non esiste più. Ma la sua assenza pesa. E in un tempo in cui la politica è sempre più marketing e sempre meno pensiero, forse avrebbe ancora qualcosa da insegnare
Luca Falbo