L’Italia si avvicina a un passaggio istituzionale cruciale. La riforma del premierato, cavallo di battaglia della maggioranza di centrodestra guidata da Giorgia Meloni, potrebbe approdare in Parlamento già entro l’estate. L’obiettivo dichiarato è quello di rafforzare la stabilità dei governi, garantendo un legame diretto tra elettori e capo dell’esecutivo. Ma questa scelta solleva interrogativi profondi: può un sistema fondato sul parlamentarismo, come quello italiano, reggere l’introduzione di un premier eletto direttamente dal popolo? E che ruolo avrà, in questo nuovo assetto, il Presidente della Repubblica?
L’Italia è oggi una repubblica parlamentare, nella quale il governo nasce e si regge sulla fiducia delle Camere. Il Presidente del Consiglio viene nominato dal Capo dello Stato, dopo consultazioni, e deve ottenere il voto di fiducia del Parlamento. È un sistema pensato per bilanciare i poteri, favorire la mediazione tra forze politiche e impedire concentrazioni di potere esecutivo.
La riforma proposta dalla destra rompe questo schema: introduce l’elezione diretta del premier, rendendo il Presidente del Consiglio non più un esecutore della volontà parlamentare, ma il rappresentante diretto della volontà popolare. In tal senso, si tratterebbe di una riforma dirompente, che scardinerebbe uno dei pilastri della Costituzione del 1948.
La Costituzione del 1948: un compromesso antifascista
Nata all’indomani del fascismo, la Costituzione italiana è stata pensata per evitare derive autoritarie. Come ricordava Piero Calamandrei, uno dei suoi padri fondatori, essa non è un’architettura rigida, ma un sistema pensato per funzionare attraverso l’equilibrio e il controllo reciproco tra i poteri dello Stato.
In particolare, il Capo dello Stato è garante dell’unità nazionale e dell’equilibrio tra Parlamento e governo. La sua funzione arbitrale si è rivelata essenziale nei momenti di crisi, come durante i passaggi delicati delle dimissioni di governi (da Fanfani a Prodi, da Letta a Draghi), in cui il Quirinale ha giocato un ruolo stabilizzatore. Con il premierato, questo ruolo potrebbe essere fortemente ridimensionato.
Nel modello in discussione, il premier sarebbe eletto direttamente dai cittadini per un mandato di cinque anni. Il Parlamento resterebbe in carica per la stessa durata, e la fiducia parlamentare verrebbe sostituita da un legame diretto con l’elettorato. La proposta prevede anche una “sfiducia costruttiva”: il premier non potrà essere rimosso se non con l’indicazione di un successore votato dalla stessa maggioranza.
Il Capo dello Stato, in questo schema, vedrebbe ridursi le proprie prerogative: non nominerà più il premier, non potrà più usare con discrezionalità il potere di scioglimento delle Camere, e avrà un ruolo meramente notarile nella formazione del governo. Un cambiamento che non solo tocca l’equilibrio dei poteri, ma anche la stessa concezione della democrazia rappresentativa.
Gli esempi europei: Francia e Germania a confronto
Il centrodestra giustifica la riforma richiamandosi ad altri modelli europei. In primis quello francese, dove il semipresidenzialismo attribuisce al Presidente della Repubblica un ruolo centrale, con poteri esecutivi diretti. Ma in Francia il Capo dello Stato non è il premier: è un Presidente eletto direttamente, che nomina il primo ministro e può sciogliere l’Assemblea nazionale. È un modello duale, con equilibrio delicato tra Esecutivo e Parlamento, soggetto a fenomeni come la coabitazione politica.
In Germania, invece, vige un parlamentarismo razionalizzato. Il Cancelliere è eletto dal Bundestag e non può essere sfiduciato se non attraverso una mozione costruttiva, che preveda un successore. È un modello che garantisce stabilità (Angela Merkel è rimasta in carica per 16 anni), ma fondato su una forte cultura della coalizione e su partiti disciplinati. Due condizioni che non sembrano riflettersi nel panorama italiano.
L’Italia ha avuto 68 governi in 76 anni, ma questa instabilità non deriva solo dal sistema parlamentare. Piuttosto, è frutto di una fragilità politica cronica: partiti personali, trasformismo, coalizioni instabili, leggi elettorali mutevoli. La stessa “legge truffa” del 1953, il Mattarellum (1993), il Porcellum (2005) e il Rosatellum (2017) testimoniano una continua tensione tra rappresentanza e governabilità, senza una direzione coerente.
Il premierato, in questo contesto, viene visto da alcuni come un rimedio alla fragilità. Ma senza una riforma complessiva – del sistema elettorale, del ruolo dei partiti, della partecipazione politica – rischia di essere solo una concentrazione di potere in un sistema già logorato.
I sondaggi recenti mostrano un sostegno maggioritario, ma non unanime, all’idea di un premier eletto direttamente: secondo Demos (maggio 2025), il 58% degli intervistati si dichiara favorevole. Tuttavia, solo il 27% è consapevole delle implicazioni costituzionali. Il consenso, dunque, appare superficiale, guidato più da un sentimento di “stanchezza politica” che da un’analisi approfondita.
Il referendum costituzionale del 2016, voluto da Matteo Renzi e poi sonoramente bocciato, è un precedente importante. Allora, il tentativo di rafforzare l’esecutivo si scontrò con una reazione difensiva da parte dell’elettorato, preoccupato per la tenuta democratica del Paese.
Una riforma che interpella il senso della democrazia
Il punto cruciale non è solo tecnico, ma culturale e politico: quale idea di democrazia vogliamo costruire per il futuro? Una democrazia diretta e verticale, che concentra potere nel capo dell’esecutivo? O una democrazia rappresentativa e orizzontale, fondata su mediazione, equilibrio e pluralismo?
La Costituzione può cambiare, lo prevede essa stessa, ma solo attraverso un processo ampio, partecipato, consapevole. Come ammoniva Norberto Bobbio: «La democrazia non è soltanto un insieme di regole, ma un insieme di valori». E tra questi valori, la divisione dei poteri, il rispetto delle minoranze e la funzione di garanzia delle istituzioni restano fondamentali.
Il cammino verso il premierato non è ancora definito: servirà l’approvazione di due votazioni parlamentari a maggioranza qualificata o, in alternativa, il ricorso a un referendum popolare. Sarà allora che l’Italia sarà chiamata a scegliere non solo una nuova forma di governo, ma anche un nuovo equilibrio tra potere e rappresentanza, tra stabilità e garanzie costituzionali.
Il rischio è che, nel nome della governabilità, si sacrifichi quella cultura della democrazia parlamentare che ha retto la Repubblica nei momenti più difficili. Il dovere della politica e dell’informazione è ora quello di spiegare, discutere, confrontare. Perché una riforma di tale portata non può passare nel silenzio o nell’ignoranza collettiva.
di Luca Falbo