Luca Zaia, quindici anni da “doge”: «Sono un amministratore che mostra ciò che fa. L’unico rimpianto? Dover lasciare prima del tempo»

Luca Zaia

Quando entra nel suo ufficio di Palazzo Balbi, Luca Zaia dà l’impressione di essersi appena seduto alla scrivania. In realtà, è lì da quindici anni. Un tempo politico che in Veneto ha cambiato la percezione della Regione, la relazione con i cittadini, persino il linguaggio pubblico. È anche per questo che oggi, per molti, Zaia non è più semplicemente il presidente: è “il doge”.

«È avvenuto in modo abbastanza naturale», dice, commentando il soprannome. «In quell’appellativo c’è amarcord e identità. È un modo per riannodare il filo che unisce questa epoca a quella della Serenissima». Il simbolo del dogado, però, non l’ha ancora indossato: «Il corno dogale tempestato di gemme? No, non me l’hanno dato». Sorride, quasi a spegnere il mito più che ad alimentarlo.

Il 7 aprile 2010, Zaia varcava per la prima volta la soglia dell’ufficio da governatore. «Avevo un obiettivo sopra tutti: restituire al Veneto l’orgoglio, dare a questa Regione lo standing che merita. E penso di esserci riuscito. Oggi ogni veneto, ovunque lo incontri, ti dice che è fiero della sua terra». Una missione che lui lega a una definizione identitaria: «Come nelle Memorie di Adriano, sostituisca “greco” con “veneto”. È la lingua dell’anima, qualcosa che lontano da qui non capiscono davvero».

Il rapporto con i cittadini, nel tempo, è diventato quasi un marchio politico. Zaia lo definisce la sua “formula vincente”. «Io vengo dal popolo e il popolo questo lo riconosce», afferma. «So cosa significa lavorare nell’officina di mio padre e sentirmi dire: “Corri a pulire i vetri dei signori”. So cosa significa crescere tra persone che producono ricchezza ma si sentono sottomesse. Io penso di aver rappresentato un riscatto sociale». Il resto, dice, sta nella vicinanza: «Ho annullato le distanze. Tutti possono incontrarmi, tutti sanno dove trovarmi. Non sto rinchiuso nel Palazzo. Una segnalazione sui social basta per aprire una pratica. Gentilini mi ha insegnato molto».

Più che politico, Zaia si definisce un tecnico che comunica: «Sono un amministratore che sa raccontare ciò che fa. Chi non mostra, non vende. Ma se non fai, non hai nulla da mostrare». E quando il sipario cala, il bilancio è netto: «Le gioie sono state tantissime. Il rimpianto? Non essermi potuto ricandidare». Poi chiarisce: «Non è questione di poltrona. Io qui non ho il feticismo della carica. Ma fa male non poter dire a chi mi mostra affetto: si va avanti insieme».

Sul limite dei mandati si è consumata una lunga battaglia politica. Zaia la racconta con tono fermo: «Non vale per tutti, vale per chi è eletto dal popolo: presidenti di Regione e sindaci. Premier, ministri, deputati, senatori possono ricandidarsi a vita. Ed è grave evocare il malaffare dicendo che io avrei un centro di potere». Il nodo, insiste, è un fraintendimento delle prerogative istituzionali: «Si parla di manovre oscure quando si tratta di responsabilità. Il 21 febbraio 2020, con il Covid, ho imposto la prima zona rossa d’Italia mentre tutti andavano nella direzione opposta. Ho chiuso cinema, teatri, chiese, ordinato 350 mila tamponi nonostante i tecnici sconsigliassero. È potere? Sì. Ma è anche responsabilità».

E proprio alla gestione dell’emergenza sanitaria si lega uno dei capitoli decisivi del suo consenso: 130 giorni consecutivi di conferenze stampa. «Non ho mai pensato che sarebbe crollato tutto. Mi affidai al più bravo: il professor Giorgio Palù. Sapevamo che la curva avrebbe invertito la rotta. Bisognava tener duro». La comunicazione quotidiana serviva, dice, «a trasmettere speranza».

Prima della pandemia, altre due catastrofi avevano segnato la sua gestione: l’alluvione del 2010 e la tempesta Vaia nel 2018. «Non mi sono fatto mancare nulla», ironizza. «Ma io sono un uomo da pantano, è il terreno dove mi muovo meglio. Da lì è nato il “Piano Marshall” delle opere anti alluvione: tutti dicevano che non ci sarebbero stati soldi né cantieri. Io ho tirato dritto: i cantieri li abbiamo aperti e chiusi. Ora il Veneto è più sicuro».

Nella lunga stagione amministrativa, un errore però lo ammette: «Spingerei di più sul piano di vendita del patrimonio regionale. Non siamo buoni gestori di immobili». Su altri fronti, invece, rivendica senza esitazioni: dalla Pedemontana «destinata ad andare in attivo e poi diventare un problema di terza corsia» alla sanità regionale, che definisce «di gran lunga migliore rispetto a 15 anni fa», pur riconoscendo la carenza di medici: «Abbiamo messo a bando 746 posti, sono stati assunti 184. Mancano all’appello 3.500 professionisti. Ma perché non parliamo dei robot chirurgici, dell’intelligenza artificiale, della telemedicina?».

Sul fronte demografico, ammette la fuga dei giovani, ma la contesta nelle motivazioni: «Ogni anno lasciano il Veneto 3.500 ragazzi. Ma perché? Non lo sappiamo davvero. Pensiamo che vadano altrove per una vita migliore, ma non è sempre così. Il mondo è più piccolo, le low cost hanno cambiato tutto. Occuparsene sì, ma con dati seri».

Infine, il capitolo più delicato: il fine vita. «Non c’è stata nessuna sconfitta politica», afferma. «È una battaglia etica, non una battaglia di schieramento. Il Paese è ipocrita: il fine vita esiste già, legittimato dalla Corte costituzionale. La politica deve solo assumersene la responsabilità. In aula ho lasciato libertà di coscienza, non ho fatto riunioni né conteggi».

Dopo quindici anni da doge, Zaia chiude la porta del suo studio quasi con la stessa semplicità con cui era entrato il primo giorno. Solo una frase, alla fine, sembra racchiudere l’intero bilancio: «Io sono l’amministratore delegato di un’azienda che si chiama Regione. E l’ho sempre guidata pensando di rappresentare il suo popolo».