L’ultima lezione di Pepe Mujica. Il presidente che visse da povero e pensò da gigante

La morte non si annuncia, cade. E quando cade sulla terra degli umili, fa più rumore che altrove. Non con il chiasso, non con il clamore, ma con la tenerezza di una foglia che scivola in un orto.

Se n’è andato José “Pepe” Mujica. Ma questo verbo — “morire” — non gli si addice. Perché Mujica è stato, fin dall’inizio, un uomo in resistenza contro la morte: la morte della speranza, la morte della dignità, la morte dell’umano. Non ha mai abitato davvero il potere. Lo ha attraversato come si attraversa un campo: con rispetto, con le mani callose, con lo sguardo basso e il cuore alto.

Aveva ottantanove anni, ma era più antico del tempo. Li portava addosso come gli eretici, come i contadini, come i rivoluzionari veri. Era l’eco degli alberi piantati dai poveri, la voce dei torturati che non hanno smesso di credere, il silenzio profondo delle periferie latinoamericane dove i bambini imparano presto a non avere.

Mujica era un controsenso vivente. Da guerrigliero torturato a presidente amato. Da uomo di lotta a uomo di governo. Senza mai smettere di essere uomo. Nato povero, cresciuto tra gli orti e la fame, non tradì mai quella povertà. Non per ideologia, ma per fedeltà. A sé stesso. Al popolo. Alla verità.

In un’epoca che confonde il potere con il privilegio, lui fu il contrario del nostro tempo. Nessuna auto blu. Nessun palazzo. Nessuna arroganza. Dormiva nella sua casa umida con i gerani al davanzale, curava le sue galline, guidava una vecchia Volkswagen e restituiva il 90% del suo stipendio.

Lo chiamarono “il presidente più povero del mondo”.  In realtà era il più ricco. Perché nulla possedeva, ma tutto donava. Sognava con i piedi nella terra e le mani piene di semi. Ha governato senza possedere. Ha parlato senza vendere. Non alzava mai la voce, eppure ogni sua parola era un grido di civiltà: “La sfida della nostra epoca è la redistribuzione della ricchezza.” “Il cambiamento climatico non è un’opinione: è il grido della terra che muore.” “La politica è servire, non servirsi.”

Fu tutto ciò che non siamo più. Fu l’anti-leader in un mondo di maschere. Fu la voce della carne, in un tempo che sa parlare solo il linguaggio dei numeri. Fu povero. Fu giusto. Fu umano.

Durante il suo governo (2010–2015), legalizzò ciò che i benpensanti temono e il popolo conosce: la marijuana, l’aborto, il matrimonio omosessuale. Fece dell’Uruguay un laboratorio della giustizia sociale.  I salari minimi crebbero del 250%. La povertà calò dal 45% all’11%. L’energia rinnovabile divenne un pilastro. E lui, mentre il mondo applaudiva, si ritirava. Tornava ai campi. Perché il potere non lo abitava: gli pesava addosso come un vestito prestato. Mentre il mondo correva verso l’alto — grattacieli, jet privati, rendite, investimenti — lui scelse l’inverso. La discesa. Il ritorno. Eppure Mujica non fu un santo. Fu qualcosa di più raro: fu coerente. Pagò con il carcere, fu chiuso per dodici anni in una cella senza luce, senza voce, senza nome.

Lo torturarono. Gli strapparono pezzi di carne e di anima. Ma quando uscì, non chiese vendetta. Chiese futuro. Chiese giustizia. E la fece — non col sangue, ma con il pane, con la scuola, con le leggi. “Un guerrigliero ha diritto a riposare”, disse pochi mesi fa, sapendo che il tumore si era esteso. E Lucía Topolansky, sua compagna di battaglie e di silenzi, gli ha sussurrato: “Sarò con lui fino alla fine. È stata la mia promessa.”  L’amore, anche questo, Mujica non lo ha mai ridotto a parole.

Oggi che se n’è andato, ci resta un’eredità impossibile da ereditare: vivere poveri senza diventare miserabili, governare senza dominare, lottare senza odiare.

Mujica è stato il corpo che ha detto no al cinismo. Il volto che ha smentito la menzogna.  La voce che ha detto “io sono con voi” e l’ha fatto davvero. In Europa, nei nostri palazzi insonorizzati, abbiamo tradito da tempo quella voce. Abbiamo svuotato la politica delle sue promesse. Abbiamo venduto la speranza in cambio dell’austerità e della crescita. Mujica no. Mujica è stato un sacrilegio nel tempio del profitto.

Un orto tra i grattacieli.  Un silenzio dentro la propaganda. Un uomo dentro la politica. Diceva: “Il compito di un dirigente politico è lasciare cuori e braccia che lo sostituiscano.”

E allora noi, ora che Mujica non c’è più…

Le abbiamo, queste braccia? Ci batte ancora, da qualche parte, questo cuore?

Mujica era l’utopia incarnata. Ma non l’utopia astratta. L’utopia come orto. Come gesto quotidiano. Come esempio. Non è il momento di omaggi formali.  È il momento della vergogna fertile, quella che spinge a cambiare. Se Mujica è morto — ed è morto davvero — allora il nostro dovere è uno solo: farlo rinascere. Nelle scelte. Nei gesti. Nei voti. Nelle scuole dove si educa a pensare. Nei campi dove si semina giustizia.  Nel coraggio quotidiano di dire no all’ingiustizia che si veste da progresso. Mujica è il ricordo che punge.  È l’esempio che brucia.  È l’utopia che ci giudica.E allora non diciamo addio.  Diciamo: resisti in noi, Pepe. Nella tua povertà, la nostra speranza. Nel tuo silenzio, la nostra parola. Nella tua morte, il nostro dovere.

Hasta la raíz. Che la tua vita sia seme. Che la tua coerenza ci salvi. Che il tuo esempio ci giudichi.

Per sempre.

di Francesco Villotta