Marco D’Amore contro la proposta di legge anti-apologia: «Se passa, dovranno arrestarci in parecchi»

Marco D’Amore

«Dovranno allargare parecchio le patrie galere, perché ci faremo arrestare in parecchi». Marco D’Amore non usa giri di parole e sceglie l’ironia amara per commentare la proposta di legge denunciata da Roberto Saviano sul Corriere della Sera. Un testo presentato dalla deputata di Fratelli d’Italia Maria Carolina Varchi che, se approvato, rischierebbe di avere effetti dirompenti sul mondo della cultura, dell’informazione e della produzione artistica.

La proposta, depositata alla Camera lo scorso ottobre e da pochi giorni assegnata alla commissione Giustizia, prevede l’estensione dell’articolo 416 bis del codice penale introducendo il reato di “apologia e istigazione dei comportamenti mafiosi”. Una formulazione che, come ha spiegato Saviano, punirebbe con pene dai sei mesi ai tre anni di carcere e con multe fino a 10 mila euro «chiunque, anche attraverso opere artistiche, media, musica o social, rappresenti o esalti la criminalità organizzata». Le sanzioni sarebbero ulteriormente aggravate nel caso di diffusione tramite stampa o strumenti digitali.

È proprio quell’“anche attraverso opere artistiche” a far scattare l’allarme. Perché, avverte Saviano, «di fatto la legge esporrebbe fiction, libri, canzoni, post online al rischio di sanzioni penali», lasciando un confine «vago e discrezionale» tra narrazione, analisi critica e apologia. Un terreno scivoloso, dove a decidere cosa sia legittimo e cosa no rischierebbe di essere non più il merito dell’opera, ma l’interpretazione del magistrato di turno.

Marco D’Amore, che in Gomorra ha interpretato uno dei personaggi più iconici della serie, Ciro Di Marzio detto l’Immortale, oggi parla da regista e supervisore artistico della nuova produzione Gomorra – Le Origini. Il prequel, prodotto da Sky Studios e Cattleya, debutterà su Sky e Now dal 9 gennaio e racconta l’ascesa del giovane Pietro Savastano. Una storia che, per sua natura, si muove dentro il racconto della criminalità, senza alcuna celebrazione ma con l’ambizione di analizzarne le radici.

«Ricordiamoci che i detenuti pesano sulla spesa pubblica», ironizza D’Amore. «Il nostro è un Paese con un debito pubblico importante, quindi – visto che le pene non sono retroattive – forse non gli conviene». Dietro la battuta, però, c’è una preoccupazione seria: la sensazione che una norma del genere possa trasformarsi in uno strumento di censura preventiva, capace di intimidire autori, registi, scrittori e musicisti.

D’Amore rivendica il senso profondo del suo mestiere. «Ho sempre pensato al mio lavoro come a qualcosa di precario, marginale rispetto alle cose davvero importanti», spiega. «Poi però la vita mi ha fatto imbattere in esperienze molto umane. E allora dico: noi serviamo. Perché esiste un’intelligenza anche del cuore che va alimentata». È lì, sostiene, che l’arte trova la sua funzione sociale: non nell’esaltare il male, ma nel mostrarlo, smontarlo, renderlo comprensibile per combatterlo.

Il rischio, secondo molti addetti ai lavori, è che la proposta finisca per colpire proprio chi, negli anni, ha contribuito a costruire una coscienza critica sul fenomeno mafioso. Gomorra, nel bene e nel male, ha segnato un’epoca, accendendo un dibattito profondo su criminalità, potere, degrado sociale. Criminalizzare il racconto significherebbe confondere la rappresentazione con la propaganda, la denuncia con l’esaltazione.

«Continueremo a produrre cose interessanti e resistenti a questa forza che ci viene contro», insiste D’Amore. E chiude con una citazione che suona come una dichiarazione di principio: «Come Pinocchio nella guazza degli assassini, ripetiamo: voglio andare avanti, voglio andare avanti, voglio andare avanti».

Una frase che riassume lo spirito di una parte del mondo culturale italiano, oggi in allarme. Perché la partita che si gioca attorno a questa proposta di legge non riguarda solo una serie tv o un libro, ma il confine – delicatissimo – tra repressione della criminalità e libertà di espressione. Un confine che, se reso troppo vago, rischia di trasformarsi in una linea rossa tracciata sulla cultura stessa.