Da qualche parte, in un archivio ormai sovraccarico, ci sarà un faldone pieno di schede elettorali con il nome di Marco Rizzo barrato con disciplina quasi militare. Perché se c’è un tratto che nessuno potrà togliere all’ex europarlamentare comunista è la costanza. Da quindici anni si candida con regolarità svizzera e risultati immutabili: dieci tentativi, dieci non elezioni. L’ultima alle regionali venete, finite come le precedenti. Eppure Rizzo non cambia passo, anzi si presenta come se la sua fosse una lunga marcia inevitabile, una missione politica ancora tutta da scrivere — anche se per ora la penna non ha lasciato tracce nelle istituzioni.
Il punto di partenza del suo commento post-voto è sempre lo stesso: l’astensione. Un fenomeno reale, preoccupante, che in Veneto ha portato il neo-presidente Stefani a rappresentare solo un elettore su quattro. La stessa dinamica si registra in Campania e in Puglia. Per Rizzo, però, diventa una sorta di chiave interpretativa universale: se i cittadini non votano, allora il problema non può essere suo. È un ragionamento che suona rassicurante, un cuscino politico su cui atterrare dopo ogni sconfitta. E funziona, perché permette di spostare l’analisi dal risultato personale al quadro generale, dove la crisi della partecipazione diventa una spiegazione pronta all’uso.
Rizzo insiste sulla necessità di costruire un’alternativa e cita i progressi del suo movimento DSP, il Sovranismo Popolare. Un percorso che lui definisce in crescita: dallo 0,8% delle Marche all’1% in Calabria, fino all’1,1% in Veneto. È una progressione da laboratorio, una di quelle curve che richiedono molta immaginazione per essere considerate significative. Ma nelle sue parole diventano la dimostrazione che la strada è imboccata e che “il radicamento sui territori” sta funzionando, anche se la geografia elettorale continua a opporgli una certa resistenza.
La sua narrazione politica è intessuta di promesse di consolidamento, iscrizioni, congressi imminenti. Il Congresso nazionale del 2026, annunciato come un momento fondativo, appare quasi come un appuntamento salvifico. E Rizzo lo racconta con la convinzione di chi ha davvero bisogno di quella scadenza per riorganizzare le truppe, riallineare i militanti e presentarsi nuovamente, quando sarà il momento, davanti agli elettori. Perché una cosa è certa: qualunque sia il responso delle urne, lui tornerà. Torna sempre.
Fra un voto e l’altro, però, Rizzo non rinuncia a mostrare un lato più personale, spesso evocato con una leggerezza disarmante. In un’intervista radiofonica, tempo fa, ha raccontato con un certo gusto autobiografico la sua vita sentimentale, dipingendosi come un uomo dalla biografia molto più movimentata della sua carriera elettorale. È un dettaglio marginale, certo, ma sufficiente a far capire che il personaggio non teme di spostare l’attenzione sul terreno che preferisce. Dove il bilancio, almeno stando ai suoi racconti, sembra decisamente più brillante di quello delle urne.
Eppure, tolti gli aneddoti, resta l’immagine di un candidato che continua a ripresentarsi senza cedere di un millimetro, immune allo scoraggiamento e impermeabile alla sconfitta. Una figura quasi archetipica della politica italiana: quella del militante infaticabile, capace di attraversare campagne elettorali su campagne elettorali senza mai cambiare espressione. Rizzo incarna questo ruolo con dedizione assoluta, come se fosse parte del suo DNA politico. E forse è proprio questo il motivo per cui continua a correre: perché, in fondo, essere candidato è diventato un tratto identitario, un mestiere che non richiede un finale diverso per essere portato avanti.
Il suo ultimo messaggio post-elettorale, in Veneto, è un compendio perfetto della sua poetica politica: un mix di resilienza, autoconsapevolezza calibrata e promessa di futuro. “Siamo sulla strada giusta”, dice. I numeri non lo confermano, ma la sua convinzione è a prova di statistica. E allora lui guarda avanti, parla di iscrizioni, di radicamento, di idee e territori. Il voto? Solo una tappa. La battuta d’arresto? Un dettaglio.
In un panorama politico dove molti si arrovellano sulla scarsa partecipazione, sulla frammentazione, sulla difficoltà di interpretare l’elettorato, Rizzo resta un’eccezione vivente: non cambia linguaggio, non cambia strategia, non cambia atteggiamento. È una costante, un ritorno ciclico che scandisce la vita politica italiana come una stagione ricorrente. La primavera delle candidature. E anche se i risultati non cambiano mai, lui è sempre lì, pronto a ripartire, a rilanciare, a spiegare che stavolta — forse — sarà diverso.







