Mattarella a Rebibbia: un luogo che riguarda tutti, anche chi finge di non vederlo

Mattarella

È un paradosso dei nostri tempi: la politica sale in cattedra sui social, si specchia nei talk-show, parla dalla distanza asettica degli studi televisivi, mentre la vita vera, quella ruvida, quella che puzza di umanità, scorre lontana, ignorata, piegata dal rumore di fondo della propaganda. In questa Italia che si è consegnata alla post-verità, in cui il dolore viene misurato in click e il consenso in algoritmi, un Presidente della Repubblica compie il gesto più semplice e per questo il più rivoluzionario: scende. Non metaforicamente. Scende davvero, fisicamente, dentro il girone più rimosso del Paese: le carceri.

Mattarella non visita Rebibbia per cerimonia, né per pietismo. Vi entra come si entra in un luogo che riguarda tutti, anche chi finge di non vederlo. Va a inaugurare Benu, l’installazione permanente di Eugenio Tibaldi dedicata all’idea di rinascita, di futuro, di possibilità. E nel farlo, ricorda una verità che l’Italia preferirebbe dimenticare: senza dignità non esiste pena, esiste solo vendetta. Il suo discorso è un atto politico nel senso più alto: non urla, non accusa, non divide, mostra. Mostra che uno Stato è credibile solo quando non abbandona gli ultimi dei suoi ultimi. “Le attività culturali impediscono che gli istituti di pena siano isolati dal mondo esterno. È doveroso che ne facciano parte, come parte del mondo della nostra Repubblica”.

È un linguaggio che stride, quasi stona, nel panorama politico di oggi, perché parla ancora di Repubblica e non di propaganda, di responsabilità e non di slogan, di rinascita e non di paura. E soprattutto perché pronuncia la frase che nessun ministro, nessun leader, nessun conduttore televisivo osa ripetere: esistono istituti in cui la condizione è totalmente inaccettabile. Inaccettabile: una parola che pesa come un macigno, se pronunciata da un Capo dello Stato. E lo è davvero. Per capire la portata di quelle parole bisogna tornare indietro.

Le carceri italiane sono sempre state lo specchio incrinato del Paese, ciò che non vogliamo vedere, ciò che puniamo invece di comprendere. Per trent’anni dopo la guerra, il sistema penitenziario è rimasto la copia sbiadita del codice fascista del 1931. Celle chiuse per 22 ore, disciplina militare, nessuna prospettiva di reinserimento.

Nel 1975 arriva la riforma dell’ordinamento penitenziario: apertura all’istruzione, al lavoro, ai percorsi di riabilitazione. Un’Italia che crede ancora nella Costituzione, non solo nella punizione. Negli anni ’90 il carcere esplode. Con Tangentopoli, la guerra alla droga, le campagne securitarie, le strutture restano le stesse ma i detenuti aumentano. Nel 1990 erano circa 31.000. Nel 2010 diventano circa 68.000, con un tasso di sovraffollamento del 150%. Nel 2013 arriva la condanna della Corte di Strasburgo per trattamenti inumani e degradanti, la sentenza Torreggiani, la certificazione giuridica di un fallimento politico e civile. Oggi in Italia ci sono circa 61.000 detenuti per 51.000 posti regolamentari. Il sovraffollamento medio è del 120%, ma in alcune regioni supera il 140%. Nel solo 2024 si sono registrati più di 70 suicidi in carcere, il dato più alto da dieci anni, un suicidio ogni 5 giorni.

È uno Stato che si autoaccusa senza bisogno di tribunali. La polizia penitenziaria opera con 1.000 agenti in meno del necessario, turni massacranti, tensioni continue che incupiscono tutti: chi vigila, chi sconta la pena, chi prova a lavorare a un nuovo inizio. E mentre i numeri parlano, la politica litiga. Si discute di mini-indulti natalizi come si discute di saldi stagionali, senza mai affrontare il nodo vero: che Paese siamo se chi entra in carcere ne esce peggiore.

Nel teatro del reparto femminile di Rebibbia, Mattarella assiste a una performance ispirata a “Le città invisibili” di Calvino. Non è un dettaglio ornamentale. È la dimostrazione che la cultura, non la retorica, restituisce volto a chi lo ha perduto agli occhi della società. Quando il Presidente parla, lo fa con il tono di chi non finge: riconosce ciò che funziona, denuncia ciò che manca, ringrazia chi lavora nell’ombra. E soprattutto riafferma un principio che dovrebbe essere scolpito sopra ogni ingresso carcerario: la pena non è vendetta, la pena è reinserimento, la pena è futuro.

Fuori dal carcere, la politica discute se concedere indulti simbolici. Si annunciano piani carceri come si annunciano bonus. Si invocano punizioni esemplari, dimenticando che la Costituzione non è un manifesto elettorale. La distanza fra questo vociare e la visita del Presidente è la distanza esatta fra lo Stato e la politica. Lo Stato entra, guarda, ascolta. La politica parla da lontano, commenta, giudica, sfrutta il tema. È un divario che racconta più di mille editoriali sulla crisi della democrazia.

Ogni Paese può essere misurato dal modo in cui tratta chi è caduto più in basso. Non lo dicono i filosofi, ma la storia. Non lo impone un’ideologia, ma la civiltà. E allora la domanda che Mattarella, senza dirla, ci consegna è brutale: possiamo definirci una Repubblica democratica se accettiamo carceri disumane. Possiamo chiamarci società, comunità, Paese, se lasciamo che migliaia di persone vivano in condizioni che noi stessi giudichiamo inaccettabili.

Se permettiamo che il carcere sia non un luogo di riscatto, ma una discarica umana. O forse abbiamo davvero rinunciato a pensarci cittadini, preferendo essere solo spettatori. La verità, quella che non ha bisogno di slogan, è che l’immagine più alta della politica italiana di questi ultimi anni non viene da un palco, da un social, da una diretta. Viene da un corridoio di Rebibbia, da un Presidente ottantatreenne che cammina tra sbarre e cemento, che ascolta senza giudicare, che chiama per nome le cose, che non accetta l’inaccettabile. In un tempo in cui tutto si dice e niente si fa, la presenza torna a essere un atto politico. Un gesto di dignità.

Un richiamo a quella parte migliore di noi che troppo spesso abbandoniamo. E forse è proprio questo, oggi, il compito più difficile: ricordare all’Italia che un Paese è tale solo se non lascia indietro nessuno. Nemmeno chi sta dietro una porta chiusa. Nemmeno chi è stato sconfitto. Nemmeno chi è stato dimenticato.

Perché la giustizia senza umanità non è giustizia, è solo un’altra forma di barbarie. E noi, nonostante tutto, non possiamo permetterci di diventare barbari. E allora, alla fine, resta una sola verità, semplice e definitiva: un Paese è credibile solo quando ha il coraggio di guardare i suoi ultimi negli occhi e riconoscerli come parte di sé. Tutto il resto è politica. Questo, invece, è civiltà.