Giorgia Meloni non ne può più. Non da oggi, e non solo per motivi tattici. I segnali si moltiplicano: frizioni nel Consiglio dei Ministri, assenze strategiche della Lega in Parlamento, dichiarazioni al vetriolo, manovre parallele a destra, i continui contrasti in politica estera, lo spirito anti europeo che sta macchiando l’immagine di Meloni.
Ma dietro il nervosismo di superficie si cela un disegno chiaro: la premier sta seriamente valutando l’ipotesi di elezioni anticipate tra settembre e ottobre, non per un’emergenza politica vera e propria, ma per una ragione ben precisa. Liberarsi di Matteo Salvini, bruciare la Lega al voto e garantirsi altri cinque anni di governo con una coalizione nuova, più docile e sotto il suo pieno controllo.
Quella tra Fratelli d’Italia e la Lega non è mai stata un’unione felice. Meloni non ha mai dimenticato l’umiliazione subita da Salvini quando, da ministro dell’Interno e leader incontrastato del centrodestra, la escludeva dai tavoli che contano. Ma con il ribaltamento dei rapporti di forza nel 2022, la presidente del Consiglio ha ottenuto la rivincita. Eppure il sospetto che la Lega, pur minoritaria, continui a remare contro, si è trasformato negli ultimi mesi in una certezza.
Le tensioni si sono fatte più visibili e sistematiche. Dall’assenza massiccia dei deputati leghisti durante le comunicazioni della premier in Aula sul Consiglio europeo, fino all’ultimo atto simbolico: la decisione del governo di impugnare la legge trentina sul terzo mandato, bandiera leghista e rivendicata con forza da Salvini. Un segnale chiaro: Meloni ha smesso di coprire l’alleato e inizia a marcarne le distanze.
Meloni non è nuova a colpi di scena politici. Nell’agosto 2019 fu tra le prime a spingere Salvini a far cadere il governo Conte I. Fu una mossa studiata, non improvvisata: si schierò con il centrosinistra e il M5S pur di mandare all’opposizione la Lega che allora dominava. Così Salvini aprì la crisi in piena estate, con un colpo di scena davvero imprevedibile. Una lezione che ha interiorizzato: le crisi si gestiscono a freddo, ma si fanno a caldo, quando nessuno se lo aspetta.
Anche durante la legislatura Draghi, Meloni fu inflessibile nel tenere Fratelli d’Italia fuori dal governo. La sua opposizione solitaria la premiò alle urne. Il ragionamento ora è lo stesso: se Salvini torna all’opposizione e lei si presenta come la garante della stabilità, il bottino politico sarà ancora tutto suo.
Dietro le tensioni c’è anche un braccio di ferro economico. Salvini ha fatto del Ponte sullo Stretto il suo vessillo, ma tutti sanno, anche dentro la maggioranza, che il progetto, nelle condizioni attuali, è più una suggestione elettorale che una priorità infrastrutturale. Eppure il ministro delle Infrastrutture lo brandisce a ogni occasione, minacciando crisi se non arrivano fondi o garanzie.
Meloni non crede al Ponte. O, meglio, sa che non ci sono le condizioni reali per farlo partire. Ma non può dirlo apertamente, perché romperebbe con un pezzo del suo elettorato e darebbe a Salvini un pretesto per giocare la carta della rottura. È una partita a scacchi, ma anche una lotta per le risorse: quelle vere, da mettere in legge di bilancio, dove la Lega chiede fondi per il Nord e Meloni vuole bilanciare a favore del Sud.
C’è poi il fattore Vannacci. L’ex generale, vice di Salvini e portatore di consensi nella destra radicale, è diventato una mina vagante. Partecipa a eventi con Marco Rizzo e pezzi di estrema destra, dialoga con le frange più estreme del sovranismo, lavora a un proprio radicamento nazionale con i “Team Vannacci”. È l’uomo che potrebbe spaccare la Lega dall’interno o persino crearne una nuova versione post-salviniana. Meloni lo teme non perché le faccia concorrenza elettorale, ma perché parla al suo stesso elettorato “duro”, quello che vuole identità, sicurezza, no all’Europa e no all’Ucraina. Una concorrenza a destra che Meloni non può permettersi se vuole rimanere credibile anche a Bruxelles.
Ecco perché Giorgia Meloni sta pensando al voto anticipato. Non è una fuga in avanti, ma una mossa fredda. Con sondaggi favorevoli, opposizioni ancora disunite e una legge elettorale che premia le coalizioni coese, la premier potrebbe decidere di giungere a sciogliere le Camere nella finestra utile tra fine estate e inizio autunno. Scommettendo di poter vincere anche da sola, o con alleati più “leggeri” come Noi Moderati e una Forza Italia che non avrebbe alternativa alcuna.
Per Meloni, bruciare Salvini alle urne non è più un rischio. È una liberazione. Il prezzo da pagare, l’instabilità, la tensione istituzionale, le critiche europee, è ormai considerato inferiore al costo politico di tenersi la Lega in casa ancora per tre anni.