Il messaggio da Lussemburgo è chiaro: il “modello Albania” non sta in piedi. La Corte di giustizia Ue ha smontato l’operazione bandiera di Giorgia Meloni, quella che doveva trasformare la gestione dei migranti in un’epopea di efficienza e fermezza. In realtà, tra procedure complesse e numeri ridicoli, si è rivelata un costoso spot elettorale. Ma la premier, invece di fare un passo indietro, decide di sfidare giudici e realtà: “Ancora una volta la giurisdizione rivendica spazi che non le competono”, tuona, parlando di “invasione di campo”.
La scena è quasi cinematografica: Meloni sul volo di Stato verso Istanbul per un vertice sui migranti, quando arriva la doccia gelata del verdetto. A Palazzo Chigi lo aspettavano, ma speravano in qualche spiraglio. Invece no: i giudici europei hanno chiarito che il piano italiano ha limiti evidenti, e che i diritti fondamentali non possono essere sospesi in nome della propaganda.
Eppure, da Roma, la reazione è stata un misto di stizza e sfida. Matteo Salvini ha alzato subito i toni: “I magistrati? Se vogliono fare politica, si candidino. Questa sentenza è uno schiaffo”. Antonio Tajani ha provato a smorzare: “Non mi convince per nulla, ma avrà effetti limitati”. La premier, invece, si è mossa come se nulla fosse: il piano non si tocca.
Peccato che i numeri siano impietosi. I Cpr di Gjader e Shengjin, sbandierati come il “blocco navale” in salsa balcanica, hanno ospitato poche decine di migranti. Un’operazione costata milioni allo Stato italiano tra navi, trasferimenti, allestimenti e scorte. Il tutto per creare un effetto ottico: mostrare al Paese che “qualcosa si fa” sul fronte migranti.
Adesso Meloni non solo vuole proseguire con i Cpr per i pochissimi trasferimenti attuali, ma pensa di riattivare lo schema originario: recupero in mare degli stranieri da spostare in Albania per le procedure di riconoscimento accelerate. In pratica, il progetto inizialmente sospeso proprio in attesa della sentenza. «Vogliamo vedere l’effetto che fa», ammettono al Viminale. Come se la bocciatura Ue fosse solo un contrattempo e non un campanello d’allarme sulla sostenibilità del piano.
Sul fronte europeo, la premier tenta di costruirsi un asse politico. La sua scommessa è tutta su Mette Frederiksen, la premier danese socialista ma dura sull’immigrazione. Insieme, sperano di ottenere qualche deroga o spinta al nuovo Patto sui migranti, che entrerà in vigore solo a giugno 2026. Troppo tardi per l’ossessione della presidente del Consiglio di portare a casa un risultato prima delle prossime elezioni. Nel frattempo, si sogna di convincere persino la Germania di Friedrich Merz, che però lo scorso maggio a Roma era stato gelido: niente avalli facili a scorciatoie anti-giudici.Il risultato, per ora, è un cortocircuito: milioni spesi, propaganda a buon mercato e un’Europa che bacchetta l’Italia. Nel frattempo i migranti continuano ad arrivare, e i Cpr albanesi restano semivuoti. Un “modello” che sembra servire più ai comizi che alla gestione reale dell’emergenza.