Neanche San Gennaro riesce nel miracolo tra De Luca e Fico: gelo al Duomo, sfida sul “Faro” da 400 milioni

Vincenzo De Luca – Roberto Fico

Il sangue di San Gennaro si scioglie, i fedeli applaudono, i napoletani tirano un sospiro di sollievo. Il miracolo si è compiuto, come da tradizione. Ma un altro prodigio, più terreno e più atteso, non arriva: la stretta di mano tra Vincenzo De Luca e Roberto Fico. Nel Duomo di Napoli, gremito per la celebrazione del patrono, l’aria resta gelida. Nessuno scambio di sguardi, nessun cenno, nessuna parola. Si ignorano platealmente, come due avversari che non hanno alcuna intenzione di recitare il copione della riconciliazione.

Il candidato del Campo largo – o, come preferisce definirlo qualcuno, della “coalizione progressista” – arriva in anticipo, prende posto in seconda fila, accanto a un ospite che non passa inosservato: l’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, ora in orbita Fratelli d’Italia e già pronto a guidare le liste meloniane in Campania. Scelta non casuale, né priva di letture politiche. Fico resta composto, saluta, sorride a chi lo riconosce.

De Luca, invece, sceglie un’altra traiettoria. Entra con passo sicuro insieme al sindaco Gaetano Manfredi e all’arcivescovo Domenico Battaglia. Va dritto nella Cappella del Tesoro, il cuore del rito, e poi si accomoda sull’altare, in tribuna d’onore, con lo sguardo severo che da anni lo accompagna nelle uscite pubbliche. È un gesto di potere: il governatore si posiziona, come sempre, dove si decide e si osserva.
Alla fine della cerimonia, in tanti tra i presenti si aspettano l’incontro. Forse una foto istituzionale, un gesto di tregua, una battuta di circostanza. Nulla di tutto questo. I due lasciano il Duomo da uscite diverse, accuratamente separate. San Gennaro compie il miracolo del sangue, ma non quello della politica.

A tentare la mediazione, come spesso accade nei momenti di crisi campana, ci prova Clemente Mastella. Con l’aria da gran tessitore, ricorda a tutti di aver fatto stringere la mano persino ad Andreotti e De Mita: «Ho fatto pace tra giganti, perché non dovrei riuscirci tra loro?». Ma le sue parole restano sospese. Per ora, tra De Luca e Fico, c’è solo guerra fredda.

Guerra che ha radici profonde. Il governatore non ha mai digerito il metodo con cui si è arrivati alla candidatura di Fico, imposto dal tavolo romano senza troppi riguardi per il suo peso locale. E ancora meno ha tollerato il cosiddetto “codice etico” voluto dal nuovo fronte progressista, che rischia di tagliare fuori dalle liste almeno cinque fedelissimi deluchiani. Un affronto che De Luca vive come un tentativo di commissariamento politico.

Ma l’ultima miccia è un’opera faraonica: il progetto del “Faro”, la nuova sede della Regione Campania, un colosso da 400 milioni di euro che De Luca ha inserito con orgoglio tra i simboli della sua eredità amministrativa. Per lui, quell’edificio non è solo cemento e vetro: è il monumento con cui suggellare vent’anni di potere regionale.

Fico, di fronte alle domande, ha preferito smarcarsi: «Vedremo tutto, piano piano», ha detto con tono misurato, cercando di non calcare troppo la mano. Ma bastano quelle poche parole per scatenare la reazione furibonda del governatore: «O va avanti quel progetto o va indietro il candidato». Tradotto: chi tocca il Faro, tocca il nervo scoperto di De Luca. E così la contesa assume contorni surreali. Un’opera pubblica diventa il campo di battaglia simbolico tra vecchio e nuovo, tra il governatore che rivendica il diritto di dettare l’agenda e il candidato che vorrebbe scrollarsi di dosso l’etichetta di semplice figurante.

Il gelo al Duomo, dunque, è solo la scena più visibile di una frattura profonda. Tra accuse, diffidenze e veti incrociati, la campagna elettorale campana rischia di trasformarsi in un interminabile regolamento di conti interno. Schlein osserva, Conte tace, gli alleati mugugnano. Mastella insiste a fare il paciere, ma il miracolo – almeno quello politico – sembra non arrivare. Intanto, tra le navate di Napoli, resta l’immagine simbolica: i fedeli applaudono al sangue sciolto, i politici tacciono e si scansano. San Gennaro non ce l’ha fatta.