Ottobrata rossa (e nervosa): il Pd implode tra flop elettorali, malumori interni e la guerra fredda contro Elly Schlein

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L’ottobrata democratica si è chiusa nel peggiore dei modi. Più che una festa, un bollettino di guerra. Dopo i flop in Marche e Calabria, la segretaria Elly Schlein si ritrova in un partito in subbuglio, con i riformisti che già affilano i coltelli e la base delusa dall’abbraccio con i Cinque Stelle. “Con il Pd si perde”, sussurrano dalle parti di Conte, che nel frattempo registra lo stesso tonfo al Sud, segno che il campo largo — o meglio, il campo minato — non funziona.

Il disastro marchigiano, con Matteo Ricci travolto dal meloniano Francesco Acquaroli, ha fatto da preludio alla débâcle calabrese: Pasquale Tridico, il padre del reddito di cittadinanza, non ha mosso un voto, riportando il M5S alle stesse cifre del 2021. L’alleanza Pd–M5S, voluta da Elly e benedetta dai sindacati, si è dimostrata una barca che imbarca acqua da tutte le parti.

A Roma e a Milano, intanto, la minoranza riformista si prepara all’assalto. Parlano di “sinistrismo ritardante”, di un partito che continua a spingere a sinistra in uno spazio già occupato da M5S e Avs, invece di provare a recuperare il voto moderato e liberale. In prima linea Lia Quartapelle, Pina Picierno, Lorenzo Guerini, Filippo Sensi e gli ex popolari del partito, che hanno fissato per il 24 ottobre a Milano un incontro dal titolo innocuo ma esplosivo: “Crescere”.

Dietro il linguaggio soft si nasconde la rivolta. “Elly non ha carisma, è una gruppettara, con lei si perde sicuro”, mormorano nelle chat dei parlamentari. La segretaria, intanto, resta trincerata al Nazareno con il suo cerchio ristretto, “quattro gatti fedelissimi”, come la definisce un ex renziano. Per sopravvivere, avrebbe siglato un patto di ferro con Maurizio Landini, mobilitando la Cgil come truppa d’assalto per le future primarie. “Ha chiuso tutto a chiave, è come se si fosse murata dentro”, confida un deputato riformista.

Nel frattempo, la corrente di Stefano Bonaccini ha ufficialmente gettato la spugna. L’ex governatore, candidato segretario sconfitto alle primarie, è stato declassato a “presidente-notaio” del partito, parcheggiato a Bruxelles e privo di peso politico. Da alternativa credibile a semplice nota a piè di pagina, Bonaccini è ormai l’esempio di come Schlein sia riuscita a neutralizzare ogni opposizione interna.

Eppure, le tensioni esplodono anche su fronti imprevisti. Le deviazioni dalla linea storica del Pd sulla politica estera, con la crescente indulgenza verso le posizioni filorusse del M5S, non hanno prodotto una sola presa di posizione pubblica. Schlein ha preferito tacere anche davanti alle uscite di Francesca Albanese, la nuova “Madonna pellegrina” della sinistra, che in pochi giorni ha attaccato il sindaco di Reggio Emilia per aver ricordato le vittime israeliane del 7 ottobre e accusato Liliana Segre di “scarsa lucidità”. Una scelta di silenzio che dentro il Pd in molti giudicano “politicamente suicida”.

Il risultato è un partito spaccato in due: da una parte la Schlein barricata, dall’altra i riformisti che cercano un’alternativa. L’obiettivo è chiaro: arrivare preparati al dopo-Schlein. Il cambio di legge elettorale voluto da Giorgia Meloni potrebbe rendere necessarie primarie di coalizione, trasformando la consultazione in un referendum interno sulla leadership dem.

Tra i nomi in campo, quelli di Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli, e di Silvia Salis, ex atleta e oggi sindaca di Genova, ex renziana travestita da civica. Ma nessuno dei due ha il carisma necessario per fronteggiare la premier. Meloni, infatti, resta la “underdog” che ha imparato la lezione mediatica di Silvio Berlusconi: parlare al popolo con slogan semplici, promettere soluzioni immediate e firmare i contratti davanti alle telecamere.

La differenza, come notano molti osservatori, è che Meloni non ha i conflitti di interessi del Cavaliere e gode di un consenso personale che nessun leader del centrosinistra è in grado di eguagliare. Mentre la destra si compatta, il Pd si lacera.

L’ottobrata del Nazareno, insomma, si chiude in un clima di resa dei conti. Schlein si aggrappa alla bandiera della sinistra pura, ma rischia di restare sola in trincea, assediata dai suoi e ignorata dagli elettori. I riformisti sognano un congresso, Conte perde colpi, Bonaccini è evaporato, e Meloni — tra un viaggio e una diretta — si gode lo spettacolo.

A questo punto, più che un partito, il Pd somiglia a un condominio litigioso: scale diverse, porte chiuse, e ognuno convinto che il vicino stia sbagliando tutto. L’unica certezza è che, in questa sinistra smarrita, “crescere” non sarà affatto facile.