Pierbattista Pizzaballa, dalla liturgia in ebraico alla kefiah in Palestina: l’outsider che potrebbe diventare Papa

di Luca Arnaù

Quando Pierbattista Pizzaballa arrivò a Gerusalemme, era un giovane frate francescano poco più che trentenne, mandato a studiare teologia nel cuore della Terra Santa. Era lì per capire, e decise di farlo fino in fondo: mentre tutti i suoi confratelli europei si iscrivevano ai corsi di arabo, lui, con una scelta che fece storcere il naso a molti, si sedette tra i banchi dell’Università ebraica di Monte Scopus per imparare l’ebraico. Fu la prima di una lunga serie di decisioni controcorrente.

I cristiani locali lo chiamavano “filo-sionista”. La Chiesa latina, ancora legata alla visione araba della causa palestinese, lo guardava con sospetto. Era l’inizio degli anni Novanta, in piena Intifada, e la firma degli accordi di Oslo sembrava un miracolo fragile. Pizzaballa scelse di abitare i margini: tra l’ebraismo e il cristianesimo, tra la liturgia latina e le domande brucianti di un popolo diviso. Celebrava messa in ebraico per i pochissimi cattolici israeliani, traduceva la liturgia, spiegava i Profeti, tentava dialoghi in un mondo dove nessuno voleva davvero ascoltare. E nel tempo si costruì una credibilità che non veniva dai titoli, ma dalla presenza. Da allora è passato più di un quarto di secolo. Quel frate curioso oggi è cardinale, Patriarca latino di Gerusalemme e uomo capace di tenere insieme più lingue, più fedi, più
narrazioni.

Il suo modo di camminare nel mondo è semplice, ma lo scenario che abita è un campo minato. Il 7 ottobre 2023, l’attacco di Hamas contro Israele ha distrutto ogni equilibrio residuo. Pizzaballa non si è chiuso nella prudenza vaticana. Ha guardato in faccia la tragedia. E lo ha fatto con un gesto che resterà scolpito nella storia: si è offerto come ostaggio, in cambio della liberazione dei civili israeliani rapiti. Un francescano che parla ebraico, che indossa la kefiah nelle visite a Betlemme, che conosce i rabbini e ascolta gli imam. Un pastore che non teme di farsi bersaglio. Nel cuore della guerra ha continuato a parlare di speranza. Ma non quella edulcorata dei buoni
sentimenti. La sua è la speranza dei risorti: “Cristo risorto è la nostra speranza”, ripete spesso, consapevole che nel suo mondo – e nel nostro – il Vangelo non si può predicare con slogan o marketing pastorale. Dice che il problema della Chiesa non è la rilevanza pubblica, ma l’avere qualcosa da dire. Non cerca soluzioni comode, né rincorre le mode. Racconta di quando, giovane e ingenuo, provò a spiegare la resurrezione a una ragazza ebrea, fallendo. E di come, da quel fallimento, abbia capito che “la resurrezione non si spiega, si incontra”.

La sua fede nasce da lì: da un incontro. Non ha mai smesso di testimoniarlo. Ha diretto per dodici anni la Custodia di Terra Santa, ha guidato dialoghi interreligiosi, ha portato in Vaticano Shimon Peres e Mahmoud Abbas per un momento di preghiera congiunta. Quando nel 2020 è diventato Patriarca, la sua elezione ha segnato una discontinuità silenziosa: un uomo delle periferie del mondo, alieno dalle manovre curiali, capace di parlare a cristiani, ebrei e musulmani, ma anche a un mondo secolarizzato che ha fame di senso. “Oggi non si parla più di conversione perché abbiamo perso la coscienza di Dio”, dice. Ma non lo fa con tono accusatorio. Parla come chi ha attraversato il deserto, e ci ha trovato una sorgente. La sua idea di Chiesa non è nostalgica, non guarda al passato con rimpianto. Anzi: “Sta finendo un modello di Chiesa, ma non la Chiesa. La sfida non è quella di recuperare. È quella di essere ciò che
dobbiamo essere”.

Queste parole, in un momento di profonda trasformazione come quello che vive la Chiesa cattolica dopo la morte di Francesco, pesano più di un programma. I suoi confratelli lo descrivono come un uomo schivo, allergico ai cerimoniali. Non è un diplomatico nel senso stretto, ma uno che la diplomazia l’ha vissuta sulla pelle, nel conflitto. E non appartiene a nessuna cordata, nessuna fazione. Questo lo rende pericoloso per alcuni, prezioso per altri. Un Patriarca che parla della Chiesa come di una comunità viva, che non fa marketing ma
testimonia. Che guarda alle ferite della Terra Santa e dice che la riconciliazione è possibile, ma ha bisogno di tempo. Che parla ai giovani, non per blandirli, ma per dir loro che non c’è niente di meglio nella vita che incontrare Gesù Cristo. Che vede la guerra e risponde con un Vangelo esigente. Un Vangelo che non accarezza, ma converte. Nel Conclave che si avvicina, tra i nomi dei favoriti, c’è anche il suo. Pizzaballa non fa campagne. Non cerca voti. Ma ha qualcosa che molti altri non hanno: un’autorità che nasce dalla coerenza. Se il
prossimo Papa dovrà essere un testimone prima ancora che un manager, allora forse il Patriarca di Gerusalemme non è solo un nome suggestivo. Potrebbe essere una scelta profetica.

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