Premierato in salita, il centrodestra studia il piano B: una nuova legge elettorale senza l’elezione diretta del premier

Se la riforma del premierato non dovesse essere approvata in questa legislatura, o non ci fosse tempo per sottoporla a referendum, la maggioranza ha già pronto un piano alternativo. È lo stesso presidente del Senato, Ignazio La Russa, a dirlo chiaramente: “Se c’è la volontà politica si può fare. Se poi non ci si arriva, c’è la legge elettorale”. Ed è proprio su questa che, lontano dai riflettori, il centrodestra sta lavorando da settimane.

Il testo del premierato, approvato in prima lettura dal Senato nel giugno 2024, è rimasto fermo a Montecitorio, senza mai entrare nel vivo del dibattito parlamentare. A oggi, nessuno nella maggioranza è pronto a scommettere che il progetto simbolo di Giorgia Meloni, l’elezione diretta del presidente del Consiglio, possa completare l’iter delle quattro letture entro il 2027. Anche perché, ammesso che il Parlamento riesca ad approvarlo in tempo, resterebbe il passaggio referendario, difficilmente collocabile prima delle elezioni politiche della stessa legislatura.

È in questo scenario che si inserisce la “strategia di riserva”, su cui si sta concentrando il tavolo coordinato dal ministro per le Riforme Roberto Calderoli. L’obiettivo è arrivare a un nuovo impianto elettorale in grado di garantire stabilità politica, anche in assenza della riforma costituzionale. Un sistema che tenga insieme le esigenze di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, ma che non preveda necessariamente l’indicazione del premier sulla scheda elettorale.

La Russa, con il suo stile diretto, ha aperto il dibattito. A condividerne l’approccio è parte del gruppo di Forza Italia, tradizionalmente più legato a una visione parlamentare. “Dal momento che la riforma non è ancora in vigore, indicare il nome del presidente del Consiglio sulla scheda sarebbe uno sgarbo al Capo dello Stato – spiega un deputato azzurro –. L’incarico di formare il governo spetta al presidente della Repubblica, non agli elettori”.

La posizione di Fratelli d’Italia, che fino a ieri sembrava inflessibile sull’elezione diretta del premier, appare oggi più pragmatica. “Tutto è negoziabile”, ha confidato il ministro Francesco Lollobrigida, intercettato in buvette a Montecitorio. Ma con una precisazione: “L’indicazione del capo della coalizione, sul modello delle regionali, rafforza la coalizione. Diversamente, se ogni lista avesse un suo leader, si rischierebbe di disperdere consenso. Per noi, comunque, è win-win”.

In pratica, il piano B punta a una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza e abolizione dei collegi uninominali. Una formula che ricalcherebbe l’impianto tedesco, adattato però al contesto politico italiano. La Lega, tuttavia, non nasconde le perplessità: il sistema maggioritario con collegi al Nord ha garantito ai leghisti un vantaggio competitivo che ora rischierebbe di svanire. “Siamo ancora in alto mare – ha detto il capogruppo Riccardo Molinari –. Se vengono eliminati i collegi serviranno correttivi seri”.

Tra le ipotesi allo studio c’è un listino di coalizione che scatterebbe in caso di vittoria, consentendo una redistribuzione più equilibrata dei seggi tra i partiti. Un meccanismo che, nelle intenzioni, dovrebbe compensare le forze minori, garantendo un accesso più ampio ai ruoli parlamentari. Si valuta inoltre se introdurre soglie di sbarramento differenziate o un premio fisso alla lista o alla coalizione che supera una determinata percentuale.

A complicare il quadro, il nodo delle preferenze. Forza Italia resta contraria: “Con le preferenze verrebbero elette poche donne”, ha spiegato il vicesegretario azzurro Stefano Benigni. Il tema è sensibile anche per FdI, che non vuole frammentare il voto interno. La Lega, invece, spinge per il ritorno alle preferenze, considerate una forma di legittimazione diretta del territorio. Il compromesso, se arriverà, passerà per un sistema misto, con collegi plurinominali e liste bloccate corte.

Dietro la trattativa, resta il nodo politico di fondo: se il premierato non dovesse vedere la luce, il rischio per Giorgia Meloni sarebbe di arrivare alle prossime elezioni senza quella riforma simbolo con cui aveva promesso di “ridare stabilità all’Italia”. Da qui la necessità di un piano B che permetta di salvare almeno l’impianto maggioritario e di presentarsi al voto come garante della governabilità.

A Palazzo Chigi si osservano con cautela i movimenti del tavolo Calderoli. Ufficialmente, la linea è quella di “rispettare i tempi del Parlamento” e “non interferire” con il dibattito sulle riforme. Ma tra i consiglieri della premier cresce la consapevolezza che, se l’iter del premierato dovesse rallentare ulteriormente, la sola via percorribile resterebbe quella elettorale.

La partita è appena iniziata, ma il segnale è chiaro: la maggioranza non intende restare ferma. E mentre l’opposizione denuncia il rischio di una “legge su misura” per consolidare il potere dell’esecutivo, nel centrodestra si ragiona già sui nuovi equilibri. Meloni, Salvini e Tajani si muovono su binari diversi ma convergenti: salvare il principio della leadership diretta, anche rinunciando all’elezione formale del premier.

La Russa, con la consueta franchezza, ha sintetizzato il senso dell’operazione: “La riforma del premierato è il nostro obiettivo, ma se non ci si arriva, non è la fine del mondo. Si può garantire governabilità anche con una buona legge elettorale”. In un Paese dove le riforme costituzionali si sono spesso arenate nei veti incrociati, il centrodestra prova così a costruire un piano di continuità.

Che sia premierato o legge elettorale, il traguardo resta lo stesso: blindare la prossima legislatura. Perché se non sarà l’Italia ad avere un premier eletto, sarà almeno Giorgia Meloni a scegliere come si eleggerà chi governerà dopo di lei.