Chi si ricorda di Nanni Moretti in quell’epica scena del suo Ecce Bombo? Sta lì al telefono con lo sguardo perplesso, chiedendo al suo interlocutore che lo sta invitando ad una festa: «Mi si nota di più se vado o se non vado? Se vado e me ne sto in disparte o se non vado affatto?». Ora togliete il regista romano, metteteci Giorgia Meloni (effettivamente la cosa fa un po’ impressione…) e sostituite il party tra amici con i referendum su lavoro e cittadinanza dell’8 e 9 giugno. Il risultato? L’ennesimo capolavoro tragicomico della politica italiana.
Referendum: non una festa… ma una precisa responsabilità
Mentre l’Italia affronta emergenze occupazionali, precarietà cronica e diritti sempre più fragili per tutti, cinque quesiti referendari promossi da Cgil e Più Europa offrono agli elettori un’occasione per dire la loro. Non è una pizzata tra amici, bensì una preziosa chiamata collettiva a decidere su temi cruciali: licenziamenti, appalti, sicurezza sul lavoro, cittadinanza. Ma proprio quando la partecipazione sarebbe fondamentale, la premier sfodera la sua mossa a sorpresa.
Giorgia al voto ma senza schede: la nuova frontiera del “presentismo passivo”
La Presidente del Consiglio ha annunciato che sì, andrà al seggio, non ritirando però le cinque schede. Tecnicamente: non parteciperà al voto. Politicamente: un messaggio ambiguo, che confonde più che chiarire. Non è assente ma è come se lo fosse. In pratica, il massimo del minimalismo elettorale. Un’astensione coi tacchi, si potrebbe dire.
Un ceffone alla chiarezza
Secondo le opposizioni, questa scelta è tutto fuorché neutrale. Anzi, rappresenta un’astuta strategia per sabotare il quorum, senza assumersi la responsabilità di dichiararsi apertamente contraria ai quesiti. “Vado ma non voto” è l’equivalente istituzionale di “non confermo né smentisco”. Elly Schlein parla di inganno: “Meloni ha paura della partecipazione”. Giuseppe Conte rincara la dose: “Indigna ma non stupisce”. Per Chiara Appendino, invece, si tratta di “un sabotaggio del voto, altro che libertà di scelta”.
Ma l’astensione dichiarata è davvero libertà?
Il punto è che, in democrazia, la forma è sostanza. Esercitare il diritto al silenzio va bene, ostentarlo in conferenza stampa è un’altra storia. Il voto è personale e segreto per un motivo: per tutelare la coscienza individuale da pressioni esterne. Quando chi governa comunica apertamente la propria astensione, manda un messaggio ambiguo: partecipare, sì ma solo per far finta.
Ecce Giorgia: vado, ma non ballo
A questo punto il parallelo morettiano diventa calzante. La Meloni, come il protagonista incerto di Ecce Bombo, sembra interrogarsi su come farsi notare di più. Solo che qui non c’è in ballo una festa, ma un referendum su temi che ci toccano maledettamente da vicino. E non si tratta di scegliere tra restare in disparte o mettersi in mostra… ma tra contribuire a una scelta collettiva o sottrarsi ad essa.
La partecipazione non si sceneggia
Meloni poteva semplicemente votare secondo coscienza, sì o no, come ogni cittadino. Nessuno le avrebbe tolto il diritto di astenersi, nella privacy del seggio, a tendine tirate. Ma trasformare l’astensione in uno spot, mentre il Paese attende risposte precise su lavoro, cittadinanza e diritti fondamentali, è un altro film. E non è neanche una bella pellicola d’autore. Semmai ricorda quei filmetti che uscivano una volta nelle sale in piena estate. Quando compravi il biglietto per sfruttare il refrigerio del condizionatore, col conforto di un bel Mottarello! Film che uscivano rigorosamente tra giugno e agosto e che oggi verrebbero probabilmente denunciati da tre ministeri e almeno cinque movimenti femministi. Titoli che sembravano partoriti durante una grigliata mista al lido, tra una partita a racchettoni e un mojito fatto col Tavernello. Supplenti, dottoresse, infermieri, colonnelli, tassisti e villeggianti in ruoli via via sempre più allupanti. Sceneggiature traballanti, un po’ di finto scandalo, una spruzzatina di nudità gratuite (mai davvero trasgressive) e battute da caserma che oggi causerebbero un TSO linguistico. Il maschio medio italiano rideva forte, mentre sognava la Fenech che gli misurava la pressione arteriosa in reggicalze. Le sale si riempivano, i botteghini ringraziavano e i critici fingevano di non averli mai visti. Però ridevano pure loro, ma sommessamente.
Tra farsa e nostalgia
Sia chiaro: erano film brutti. Ma erano brutti con consapevole orgoglio, con quella spavalderia provinciale che rendeva tutto in qualche modo “autentico”. Non volevano insegnare nulla, non volevano redimere lo spettatore. Volevano solo permettere di uscire dalla calura agostana e offrire un’ora e mezza di sospensione del buon gusto, tra un tormentone comico e un’inquadratura “accidentale” di décolleté. Ma il prossimo weekend Giorgia avrebbe fatto bene a risparmiarci questa ennesima proiezione. Ma di quale film? Ma certo, di… La Premier va al seggio ma non la da (la scheda). Forse, stavolta, sarebbe stato più elegante scegliere il silenzio dell’urna, non quello del palcoscenico. La critica avrebbe applaudito.