Separazione delle carriere: via libera della Camera, ma senza i due terzi. Per Meloni si apre il fronte del referendum

Un voto che lascia il segno, e una ferita che rischia di diventare referendum. La Camera ha approvato con 243 sì e 109 no la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Applausi, cori e strette di mano tra i banchi della maggioranza, ma non la cifra magica dei due terzi, quella che avrebbe chiuso la partita evitando la consultazione popolare. Adesso, dopo il passaggio al Senato previsto entro novembre, la palla passerà inevitabilmente agli italiani.

E qui Giorgia Meloni si gioca molto più che una bandierina di programma: il referendum sulla giustizia potrebbe trasformarsi in un voto pro o contro il governo, con l’ombra di una bocciatura politica totale se vincesse il no.

In Aula, però, non è stata una giornata normale. La tensione è salita subito dopo l’annuncio del risultato: dai banchi del Pd e del Movimento 5 Stelle si sono alzati cori di protesta, e in pochi minuti la situazione è degenerata. Deputati delle opposizioni si sono avvicinati ai ministri per urlare la loro rabbia, mentre il vicepresidente di turno Sergio Costa provava invano a ristabilire l’ordine. Si è arrivati a un passo dallo scontro fisico, con commessi costretti a fare da barriera tra forze politiche pronte a venire alle mani.

La protesta, secondo l’opposizione, è stata alimentata dall’atteggiamento trionfale della maggioranza. «Indecente festeggiare così una riforma che spacca il Paese mentre non rispondete sul dramma di Gaza», ha urlato la capogruppo dem Chiara Braga. Riccardo Ricciardi, del M5S, ha rincarato: «Siete complici. Noi vogliamo la premier qui, in Aula, a riferire. Non a brindare».

Tra i banchi del governo c’era il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il vero padre politico della riforma. Accanto a lui il vicepremier Antonio Tajani, finito subito nel mirino delle opposizioni: «Lei ha applaudito!» gli hanno gridato. La replica non si è fatta attendere: «Io non ho applaudito, ho solo dato una pacca sulla spalla a Nordio. Ma non mi faccio intimidire da dieci deputati che vengono sotto i banchi». Poi l’affondo: «Questa riforma è la battaglia storica di Forza Italia, dal 1994 a oggi. E Silvio Berlusconi ne sarebbe orgoglioso».

In effetti, più che Nordio, il fantasma che aleggiava nell’Aula di Montecitorio era quello del Cavaliere. «La dedichiamo a lui», ha detto Tajani poco dopo, trasformando il voto in un omaggio postumo. Un messaggio chiaro: il centrodestra difende questa riforma come simbolo identitario, non solo come strumento tecnico.

La premier Giorgia Meloni, lontana ma attentissima, ha festeggiato con un post sui social: «Avanti con determinazione per consegnare all’Italia una riforma storica e attesa da anni». Un messaggio di forza che però non nasconde la fragilità politica del momento: perché se il referendum dovesse trasformarsi in un plebiscito anti-Meloni, la leader di Fratelli d’Italia rischierebbe un colpo durissimo proprio sul terreno in cui aveva promesso efficienza e modernità.

Le opposizioni annunciano battaglia. Elly Schlein parla di «propaganda e ossessione per il potere»: «Una riforma che non affronta i problemi veri dei cittadini – dai tempi infiniti dei processi al sovraffollamento delle carceri – ma punta solo ad abbattere i giudici, considerati ostacoli». E poi l’accusa diretta: «Meloni prende ordini da Berlino, tradendo la vocazione italiana di ponte nel Mediterraneo».

Sul piano tecnico, la riforma prevede la nascita di due Consigli superiori della magistratura separati per giudici e pm, l’introduzione dell’Alta Corte disciplinare e la possibilità di sorteggio per la composizione. Per il centrodestra è «una rivoluzione di civiltà», per il centrosinistra «una vendetta contro la magistratura». Due letture inconciliabili che si confronteranno direttamente davanti agli elettori.

La scena finale della giornata restituisce l’atmosfera meglio di mille parole. Nei corridoi di Montecitorio, mentre la tensione scema, si vedono sorrisi larghi tra i deputati di Fratelli d’Italia e Forza Italia. Qualcuno brinda nei bar vicini. Dall’altra parte, Pd e 5 Stelle preparano già la campagna per il referendum, convinti che il Paese non seguirà Meloni in questa “crociata”.

L’appuntamento è fissato: quando il Senato avrà dato il via libera, sarà il referendum a decidere. La premier esulta, ma sa bene che la partita vera deve ancora cominciare. E potrebbe diventare il voto più rischioso del suo mandato.