Settantacinque anni sono tanti, ma non abbastanza da cancellare la memoria. Il 9 maggio 1950, in un piccolo salone del Quai d’Orsay, a Parigi, un uomo timido, dall’eloquio lento ma dalla visione chiarissima, cambiò la storia. Si chiamava Robert Schuman, ed era il ministro degli Esteri francese. Quella mattina, circondato da giornalisti scettici e politici perplessi, annunciò un progetto che sembrava impossibile: unire l’Europa. Non con la forza, ma con la condivisione. Non con le armi, ma con il carbone e l’acciaio.
La sua dichiarazione fu breve, concreta, rivoluzionaria. La guerra, che aveva straziato il continente per due volte in meno di mezzo secolo, doveva diventare non solo impensabile, ma materialmente impossibile. Come? Mettendo in comune le risorse che avevano alimentato i cannoni: carbone e acciaio. Era l’inizio della CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, ma soprattutto di un ideale: quello di una Europa unita, solidale, pacifica.
Quel giorno è oggi la Festa dell’Europa. E mai come quest’anno, nel pieno di una guerra sul suolo europeo, con l’Ucraina che resiste all’invasione e i venti della storia che soffiano inquieti, ha senso ricordarlo. Non per nostalgia, non per cerimonia. Ma per responsabilità.
Schuman non era un sognatore ingenuo. Aveva visto gli orrori del nazismo, era stato arrestato dalla Gestapo, si era rifugiato nei monasteri cistercensi. La sua idea di Europa nasceva dal dolore, ma anche da una fede incrollabile nella pace. Sapeva che non bastavano le buone intenzioni: servivano passi concreti, realizzazioni tangibili, un metodo paziente.
“L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme”. Lo disse lui stesso. E aveva ragione. L’Europa è nata poco a poco, tra ostacoli, fallimenti, avanzate e ritirate. Sei Paesi all’inizio, ventisette oggi. Un mercato unico, una moneta comune, un Parlamento, una Corte. Ma anche troppe esitazioni, troppe divisioni, troppi egoismi.
Oggi l’Europa si trova a un bivio. La guerra in Ucraina ha infranto la certezza della pace eterna. Le disuguaglianze crescono, i nazionalismi rialzano la testa, le istituzioni sembrano spesso lente, distanti, impacciate. Il sogno europeo sembra sfocarsi. Ma guai a darlo per morto. Perché quel sogno è ancora là, a indicare la direzione.
Non è più tempo di retorica. È tempo di scelte. L’Europa deve decidere se vuole essere protagonista della storia o spettatrice. Se vuole contare nel mondo, o restare impantanata nei veti incrociati. Se vuole davvero una politica estera comune, una difesa comune, una solidarietà concreta. O se preferisce chiudersi nei suoi confini, lasciando campo libero a chi non crede nella democrazia, nei diritti, nella pace.
Eppure qualcosa resiste. Nell’Erasmus che ha fatto incontrare milioni di giovani. Nelle bandiere blu con le stelle dorate che ancora sventolano. Nelle mani che si stringono tra Bruxelles, Parigi, Berlino, Roma, Madrid, Varsavia, Atene. Nelle lingue diverse che si ascoltano nei corridoi del Parlamento europeo. Nei bambini che imparano che europeo non è un passaporto, ma un modo di stare al mondo.
Schuman non è stato solo un politico. Era un uomo di fede, e di cultura. Credeva che l’Europa dovesse avere un’anima. Un’anima fatta di valori: solidarietà, rispetto, dialogo, giustizia. Non erano parole astratte. Erano principi da incarnare. Anche oggi. Soprattutto oggi.
La Dichiarazione Schuman non è un pezzo da museo. È una bussola. Un promemoria. Un testamento. Ci ricorda che l’unità è un lavoro quotidiano, faticoso, esigente. Che la pace non è mai conquistata per sempre. Che la democrazia ha bisogno di cura. Che il bene comune va anteposto all’interesse di parte.
E ci ricorda anche che la forza di una visione può avere più impatto delle armi. Che mettere insieme le energie non è utopia, ma un modo concreto per costruire un futuro comune. Che l’Europa, quando è fedele a se stessa, è un progetto di pace attiva, non una bandiera da esibire. È la somma delle sue storie, delle sue fragilità, delle sue rinascite.
Serve, oggi più che mai, il coraggio di continuare. Continuare come ci chiese Schuman. Continuare a crederci, anche quando tutto sembra spingerci al cinismo e al disincanto. Continuare a costruire un’Europa che non sia solo mercato e regole, ma anche sentimento e visione.
Ci ricorda, soprattutto, che il futuro non è scritto. Ma si può scegliere. E che tradire l’Europa, oggi, significherebbe tradire quel futuro. Quel 9 maggio del 1950 non fu solo un giorno di primavera. Fu un atto di coraggio. Oggi tocca a noi dimostrare di esserne degni.
di Luca Arnaù