Vent’anni di politica tra volgarità, odio e disumanizzazione

Vittorio Sgarbi

Roberto Giachetti rivolgendosi a Roberto Speranza esclamò: “hai la faccia come il c*lo” Salvini sale su un palco con una bambola gonfiabile: ecco la sosia della Boldrini, all’epoca presidente della Camera. Travolto dalle critiche, arrivate da mezza Italia, lancia l’hashtag #sgonfialaboldrini! Peggio ancora fece il deputato cinquestelle Manlio De Stefano: “Boldrini è uno zombie, una donna senza dignità che parla a un tg senza giornalisti non merita considerazione”.

C’è una linea che una volta separava il dissenso dall’odio, la critica dall’insulto. Una linea sottile ma evidente, che imponeva dignità anche allo scontro più acceso. Quella linea, nella vita politica italiana, è stata cancellata. Negli ultimi vent’anni, il dibattito pubblico ha subito una trasformazione profonda e pericolosa: non solo si è imbarbarito il linguaggio, ma è cambiata la natura stessa del confronto. Le parole non servono più a convincere, ma a demolire. La politica non è più antagonismo, è guerra. E come in ogni guerra, l’obiettivo è annientare l’altro, anche sul piano umano.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una scena pubblica in cui l’insulto è normalizzato, la violenza verbale tollerata, la volgarità trasformata in cifra di autenticità. Si è partiti da gesti provocatori, come il dito medio di Umberto Bossi rivolto ai fotografi o le invettive gridate in dialetto contro Roma ladrona, e si è finiti a definire la presidente della Camera, terza carica dello Stato, una “bambola gonfiabile”. Le parole sono diventate sempre più grevi, i bersagli sempre più personali, i limiti sempre più assenti.

Non è un problema di parte politica. Tutti, prima o poi, hanno contribuito a questa deriva. Se Beppe Grillo è il padre del Vaffa Day, Silvio Berlusconi ha lasciato un’impronta profonda con il suo stile beffardo e spesso sessista: da quella barzelletta su Rosy Bindi con bestemmia finale, raccontata sottovoce tra le macerie del terremoto a L’Aquila, alla celebre frase “Lei è più bella che intelligente”, pronunciata in diretta TV a Porta a Porta. Un linguaggio paternalista, derisorio, che colpiva nel segno proprio perché mirava al discredito personale.

Nel centrosinistra, la deriva è stata meno evidente. Ma Roberto Giachetti insultò Roberto Speranza: “hai la faccia come il c**o”. Nel 1995, il premier Lamberto Dini perse le staffe e sbottò in Aula con un “Eh caz**!”. 

Vittorio Sgarbi, non ha eguali: espulso dall’Aula della Camera nel 2020 dopo aver duramente insultato Mara Carfagna, urlò: “vaff*****o, str*nza, t***a…” prima di essere portato via di peso dai commessi di Montecitorio.

Tutto peggiora con i social network. La violenza verbale si è moltiplicata, atomizzata, spersonalizzata. Chiunque può insultare chiunque. Ogni parola viene rilanciata, esasperata, decontestualizzata. Si è arrivati ad augurare la morte a Pier Luigi Bersani durante il suo ricovero per emorragia cerebrale. E non è stato l’unico: politici malati, colpiti da lutti o drammi familiari, sono diventati bersagli preferiti della ferocia digitale. La compassione ha lasciato spazio al sarcasmo, la solidarietà alla gogna.

E poi, l’ultimo gradino. L’ultimo, ma non il più basso. Quando si arriva a leggere – come è successo pochi giorni fa – frasi che augurano la morte alla figlia della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, si capisce che qualcosa si è spezzato definitivamente. Non si tratta più di invettiva politica. Non è nemmeno odio ideologico. È puro disprezzo dell’umano. È il cortocircuito di una civiltà che ha smarrito i freni.

Giorgia Meloni, del resto, non è esente da questa degenerazione. Anche lei ha scelto di rispondere talvolta con lo stesso tono. “Ecco la str*nza”, ha detto pubblicamente di sé, rilanciando l’insulto che Vincenzo De Luca le aveva rivolto mesi prima. Un modo per rivendicare forza, certo. Ma anche l’ennesima conferma che la volgarità non è più eccezione: è diventata stile.

Oggi la politica italiana sembra muoversi in un costante campo di battaglia verbale, dove il rispetto è un ostacolo e la misura un difetto. L’insulto ha sostituito l’argomento, l’aggressione ha preso il posto del confronto. Non si combattono più le idee, si distruggono le persone.

Ma le parole non sono innocue. Creano clima, diffondono mentalità, preparano i gesti. Se un leader può augurare il male a un altro, se un cittadino può maledire la figlia di una premier, se il Parlamento può diventare un’arena da reality show, allora l’Italia rischia di smettere di essere una democrazia matura. Perché senza rispetto, senza parole civili, senza senso del limite, la convivenza si sgretola.

Forse è il momento di riscoprire il valore del silenzio, del rispetto, della responsabilità. Non per moralismo, ma per necessità. Perché un Paese che si abitua all’insulto, alla minaccia, alla volgarità come pane quotidiano, è un Paese che si prepara al peggio. E il peggio, a volte, arriva in silenzio, dopo anni di grida.

di Bruno Battista