Vertice Italia-Albania, accordi record ma i centri migranti restano al palo: Rama incassa, Meloni promette che «funzioneranno»

Il vertice intergovernativo di Villa Pamphilj si è consumato nella cornice di un’amicizia ostentata: abbracci, sorrisi, complicità costruita negli anni e consolidata da un rapporto politico che Giorgia Meloni ed Edi Rama difendono con cura. La giornata è stata battezzata «storica» da entrambi, più per la quantità degli accordi firmati che per i risultati immediati. Sedici intese, una raffica di firme che compongono una mappa ambiziosa di cooperazione economica, militare, infrastrutturale e culturale. Ma dietro la scenografia dell’intesa totale resta il nodo più spinoso: i centri per i rimpatri, costati miliardi all’Italia e ancora bloccati dalla giustizia europea e nazionale.

Il peso politico del vertice è apparso chiaro fin dall’inizio. Meloni ha ricordato che l’Italia è il primo partner commerciale dell’Albania e che oltre tremila imprese italiane operano nel Paese. Ha parlato di una presenza consolidata, da rafforzare, da trasformare in un ponte permanente sul quale far passare investimenti, commesse e una relazione politica privilegiata. Rama, sorridente e persino emozionato, ha accettato questi riconoscimenti come il segnale di un equilibrio ribaltato: l’Albania non più Paese che chiede, ma Paese al quale si offre. E gli accordi firmati lo dimostrano.

La parte economico-industriale è la più consistente. Fincantieri e la società albanese Kayo creeranno una joint venture che costruirà sette navi nella base navale di Pasha Liman, che verrà a sua volta modernizzata. È un progetto che significa infrastrutture, posti di lavoro, tecnologie trasferite e una lunga permanenza industriale italiana in territorio albanese. Rama lo ha definito «un investimento che cambierà il futuro dei giovani del Paese», annunciando salari competitivi e formazione specialistica. Non meno importante è la consegna di due pattugliatori alla Guardia costiera albanese, gesto che rafforza non solo la cooperazione marittima ma anche la narrativa di una Albania sempre più integrata negli standard di sicurezza europei.

Accanto alla difesa scorrono altre intese: crediti agevolati per la protezione civile albanese, un accordo tra Simest e l’agenzia Aida per sostenere le piccole e medie imprese locali, un memorandum tra Leonardo e Kayo nel settore della difesa. Progetti che consolidano un asse industriale bilaterale che Roma non aveva mai spinto così in profondità. E poi ci sono i capitoli più ampi, dall’energia alle infrastrutture, con l’ipotesi del Corridoio VIII, la dorsale che partirebbe dalla Puglia per arrivare fino al Mar Nero attraversando l’Albania. Una visione geopolitica che trasforma l’Adriatico da frontiera a cerniera strategica.

Eppure, per quanto la giornata sia stata costellata di firme e dichiarazioni ottimiste, il baricentro politico del vertice resta uno solo: i centri migranti. Sono l’unico vero interesse del governo italiano in Albania, l’unico progetto che Meloni ha voluto intestarsi come svolta nella gestione dei rimpatri e che oggi si trova sospeso a un filo. Costruiti a caro prezzo, strutturati per ospitare persone da rimpatriare rapidamente, i Cpr albanesi non hanno mai davvero iniziato a funzionare. Le sentenze della giustizia italiana hanno stabilito che Bangladesh e Tunisia non possano essere considerati Paesi sicuri. L’Unione europea sta cercando di aggiornare la lista, ma intanto i trasferimenti restano bloccati.

Meloni lo ha detto con durezza, attribuendo la responsabilità alla magistratura: «Noi avremmo perso due anni per finire esattamente come era all’inizio. La responsabilità non è la mia». Ha insistito sul fatto che i centri funzioneranno, che entreranno in piena operatività con il nuovo Patto europeo su migrazione e asilo e che l’Italia andrà avanti comunque. Una posizione che ha il sapore della determinazione politica e, allo stesso tempo, dell’impasse amministrativa. Rama, consapevole che il tema è esplosivo per la politica italiana, ha lasciato Meloni a gestire da sola la parte più delicata.

A bilanciare la complessità, il premier albanese ha incassato ciò che più gli interessa: l’appoggio inequivocabile dell’Italia al percorso di adesione all’Unione europea. Meloni ha parlato apertamente della possibilità che i negoziati politici possano aprirsi nel 2028, durante il semestre di presidenza italiana. Ha promesso sostegno, vicinanza, accompagnamento. Rama ha colto il messaggio con entusiasmo, definendolo un «passo decisivo» e trasformando il vertice in una vittoria diplomatica personale.

La scena, tuttavia, non convince le opposizioni. Elly Schlein è stata netta: «Hai fallito». Il giudizio riguarda il cuore del patto Italia-Albania, quei centri che dovevano essere il simbolo della nuova strategia migratoria e che oggi restano chiusi, inutilizzati, incapaci di reggere il confronto con gli annunci. Per il centrosinistra, il vertice è stato un esercizio di propaganda, un tentativo di coprire con accordi industriali l’assenza di risultati concreti sul dossier più politico e più identitario del governo.

Alla fine della giornata, tra le foto nel giardino di Villa Pamphilj e le dichiarazioni cariche di enfasi, resta uno scarto evidente. L’Albania esce dal vertice più ricca di investimenti, più vicina all’Europa, più centrale nella strategia italiana. L’Italia, al contrario, resta appesa a un progetto che non decolla e che continua a dividere giurisdizioni, opinione pubblica e Parlamento. Ed è proprio in questo contrasto che si misura il peso reale dell’incontro: un successo per Rama, una scommessa ancora tutta da vincere per Meloni.