Abu Dhabi e Dubai diventano il centro silenzioso del mondo: così gli Emirati guidano la nuova diplomazia globale tra guerre, crisi e accordi segreti

Dubai

Il fatto che emissari americani, russi e ucraini abbiano scelto Abu Dhabi per un confronto riservato – lontano dai riflettori, protetto da una discrezione quasi assoluta – è la conferma più evidente del ruolo che gli Emirati Arabi Uniti hanno assunto nel nuovo mondo multipolare. Le città emiratine non sono più semplici hub commerciali, né soltanto catalizzatori di investimenti e flussi turistici. Sono diventate un luogo politico: uno spazio neutrale, sicuro, logisticamente imbattibile, in cui potenze rivali accettano di sedersi allo stesso tavolo. Un risultato costruito negli ultimi dieci anni, ma accelerato bruscamente prima dalla pandemia, poi dalla guerra in Europa orientale.

La leadership emiratina ha compreso per tempo che le crisi globali – se gestite con rapidità e visione – possono trasformarsi in occasioni di consolidamento. Il Covid-19 ha rappresentato un banco di prova perfetto. Mentre buona parte del mondo arrancava, gli Emirati hanno mostrato efficienza, velocità decisionale e una capacità logistica difficilmente replicabile. Il tracciamento digitale venne avviato in tempi record, la campagna vaccinale raggiunse coperture tra le più alte al mondo, ma soprattutto il Paese divenne il perno logistico dell’OMS per la distribuzione di dispositivi medici e vaccini in oltre 130 Stati. Il cuore di questa macchina era l’International Humanitarian City di Dubai, che ha smistato circa l’80% delle forniture mediche dell’OMS tra 2020 e 2021. Non un dettaglio tecnico, ma la dimostrazione di una visione geopolitica: essere indispensabili è più utile che essere semplicemente ricchi.

Parallelamente, Abu Dhabi ha investito nella produzione autonoma del vaccino Sinopharm, dando vita all’“Hayat-Vax”, nato da una partnership con la Cina. Un tassello strategico che ha permesso agli Emirati di inserirsi nella catena globale della manifattura farmaceutica e di trasformarsi in player industriale, non più solo commerciale. La collaborazione con Pechino, già forte nei settori energia, tecnologia e telecomunicazioni, ha trovato così un terreno comune che va oltre le dinamiche del Golfo. Nel frattempo Dubai, con la propria Vaccine Logistics Alliance, ha sostenuto la distribuzione verso i Paesi più fragili, consolidando un’immagine di affidabilità umanitaria.

La guerra in Ucraina ha esteso questo paradigma. Gli Emirati hanno scelto una posizione indipendente: non hanno aderito alle sanzioni occidentali contro Mosca, ma non hanno neppure sostenuto la narrativa del Cremlino; hanno mantenuto canali aperti con Washington, garantito spazio diplomatico a Kiev e accolto ingenti capitali russi in fuga dal sistema occidentale. Una linea pragmatica, che presuppone un equilibrio delicatissimo, ma che ha regalato ad Abu Dhabi un ruolo unico: essere un luogo dove le parti, pur in conflitto, trovano condizioni accettabili per confrontarsi.

Che le delegazioni di Stati Uniti, Ucraina e Russia abbiano deciso di parlarsi qui non è dunque un episodio isolato, ma il punto d’arrivo di un percorso politico costruito progressivamente. Gli Emirati sanno offrire ciò che altri non possono: discrezione assoluta, neutralità accettata da attori antagonisti, infrastrutture capaci di garantire spostamenti e sicurezza in ogni condizione, un ecosistema finanziario in grado di attirare oligarchi russi e investitori americani senza creare contraddizioni diplomatiche. È la loro forza, ma anche la loro identità: essere una piattaforma globale, dove le fratture del mondo trovano un terreno di decompressione.

La trasformazione non è solo diplomatica. Sul piano economico gli Emirati stanno perseguendo un obiettivo chiarissimo: preparare il dopo-petrolio. La Vision 2030 di Abu Dhabi e l’Industrial Strategy 2030 di Dubai puntano a costruire un’economia avanzata fondata su tecnologia, intelligenza artificiale, logistica, energia pulita, aerospazio e ricerca. L’ambizione è quella di diventare un polo regionale per l’economia digitale e per le industrie ad alta intensità di conoscenza. Non a caso nel settore dell’intelligenza artificiale gli Emirati collaborano con aziende americane, cinesi ed europee, senza rinchiudersi in blocchi esclusivi. Anche qui, neutralità attiva e flessibilità strategica si intrecciano.

In questo quadro, la diplomazia degli Emirati non è un afflato idealistico, ma uno strumento coerente di potenziamento economico. Più il Paese è percepito come affidabile, più capitali attirerà. Più capitali attirerà, più potrà contare nei tavoli internazionali. È la logica stessa della globalizzazione nella sua fase multipolare: contano le infrastrutture, contano i network, contano le piattaforme. Abu Dhabi e Dubai incarnano perfettamente questo modello.

Gli accordi con Israele, la collaborazione con la Cina, la continuità di dialogo con Washington, i rapporti economici con l’India e il ruolo crescente in Africa orientale compongono una mappa che va ben oltre il tradizionale raggio d’azione del Golfo. Gli Emirati sono presenti nella logistica del Mar Rosso, negli investimenti infrastrutturali in Corno d’Africa, nei fondi sovrani europei e asiatici, nell’innovazione energetica e persino nello spazio, con programmi in espansione che li collocano fra gli attori scientifici più avanzati della regione.

Nel tempo, questo mosaico ha prodotto un risultato inatteso: gli Emirati non sono più un Paese che si colloca tra Oriente e Occidente; sono diventati un luogo che mette in relazione Oriente e Occidente. Non una terra di mezzo, ma una piattaforma di incontro. E nella fase storica attuale, segnata da rivalità crescenti, questa funzione ha un valore politico enorme.

La domanda, ora, è come il Paese affronterà le turbolenze future. In un mondo segnato da tensioni geopolitiche, nazionalismi economici, guerre ibride e competizione tecnologica, la strategia emiratina potrebbe incontrare ostacoli. La loro neutralità attiva richiede una capacità costante di bilanciare potenze che potrebbero chiedere schieramenti più rigidi. Eppure, finora, gli Emirati hanno dimostrato di saper navigare le correnti globali con una combinazione di pragmatismo, velocità decisionale e un intuito geopolitico che pochi Stati possiedono.

Ma un elemento sembra già certo: il fatto che Stati Uniti, Russia e Ucraina abbiano accettato di parlarsi qui è la prova definitiva che Abu Dhabi e Dubai non sono più solo destinazioni di lusso o centri d’affari. Sono diventate un punto di riferimento necessario in un sistema internazionale fragile, competitivo e sempre più senza luoghi neutri. In questo scenario, gli Emirati non si limitano a ospitare incontri: li rendono possibili. E questo, nel mondo di oggi, è forse la forma più alta e concreta di potere.