Abu Dhabi diventa il nuovo snodo della diplomazia globale. Nessun annuncio ufficiale, nessuna foto di rito, nessuna dichiarazione congiunta. Eppure, è qui che nelle ultime settimane i delegati di Stati Uniti e Russia si sono incontrati più volte per discutere quello che fino a poche settimane fa sembrava impronunciabile: un negoziato concreto sulla fine della guerra in Ucraina.
La notizia non è ufficiale, ma viene confermata da più fonti internazionali e analisi indipendenti. Non un’operazione di facciata, ma una trattativa strutturata. E questa volta, chi non siede al tavolo rischia di subirne le conseguenze.
Il segnale che qualcosa si sta muovendo è arrivato da Kiev. Il governo ucraino avrebbe dato un primo via libera politico a un possibile quadro negoziale. Non per convinzione, ma per necessità. Il fronte è in difficoltà, l’esercito è in difesa strategica, gli aiuti militari occidentali rallentano e l’Ue continua a produrre armamenti con tempistiche incompatibili con il ritmo della guerra.
I numeri parlano da soli. L’Unione Europea aveva promesso un milione di munizioni entro il 2023, ma ne ha consegnate poco più della metà. La spesa militare dei 27 resta un terzo di quella statunitense. E per produrre un singolo obice servono in media 18 mesi. Troppi, per una guerra che corre.
Washington vuole chiudere, Mosca vuole congelare. Trump ha fretta di disinnescare un conflitto costoso e politicamente logorante, mentre Vladimir Putin mira a consolidare le posizioni occupate e trasformarle in un nuovo status quo. In mezzo, Kiev che tenta di tenersi in piedi: il bilancio statale è sostenuto dai trasferimenti occidentali, oltre 40 miliardi di dollari dagli Usa nel solo 2024. Ma tutto rischia di complicarsi.
Da qui nasce il modello negoziale che gli americani stanno perfezionando: una tregua “alla coreana”, con una linea di demarcazione stabile, una supervisione internazionale, limiti agli armamenti e un pacchetto di sicurezza per l’Ucraina che ricorda il modello israeliano degli anni Settanta. La contropartita: l’ingresso nella Nato viene congelato, almeno per una fase transitoria.
Zelensky non ha molte alternative. La mobilitazione interna resta impopolare e politicamente rischiosa, le perdite aumentano e la società ucraina appare stanca. Nell’ombra, i diplomatici ucraini accettano il perimetro fissato dagli americani: una soluzione imperfetta, ma l’unica realisticamente sul tavolo.
E l’Europa? È il convitato di pietra. Commenta, convoca riunioni, produce documenti, ma incide poco. Nelle capitali europee si continua a parlare di “leadership strategica”, ma la pace – o meglio, il congelamento del conflitto – si sta scrivendo altrove. Ancora una volta.
Abu Dhabi entra così in una nuova geografia politica. Non sarà un trattato, non sarà una resa. Sarà un equilibrio instabile, costruito da Washington e Mosca, a cui Kiev si adegua e che l’Europa osserverà da bordo campo.
Forse non è la fine della guerra. Ma è l’inizio della sua trasformazione. E per il continente europeo, costretto a prendere appunti mentre altri decidono, è una lezione difficile da ignorare







