Andrea Cavallari scappa e lo Stato resta a guardare: evasioni in aumento del 700% ma nessuno cambia le regole

Andrea Cavallari ha detto addio al carcere e non è più tornato. Condannato a 10 anni e 11 mesi per aver fatto parte della famigerata “banda dello spray” — il gruppo che causò la tragedia della discoteca Lanterna Azzurra di Corinaldo, con sei morti e decine di feriti — il giovane di 26 anni aveva ottenuto il permesso di uscire per motivi di studio. Il giorno della laurea in Giurisprudenza è arrivato, la discussione si è tenuta, applausi e foto. Ma del rientro a Rebibbia, nessuna traccia. Cavallari ha fatto perdere le sue. Lo Stato lo ha lasciato uscire con fiducia. E lui, in cambio, ha risposto con un’evasione.

Un episodio clamoroso, che in un Paese serio avrebbe già portato a una riflessione sulle maglie troppo larghe del sistema carcerario. Invece, silenzio. O quasi. A rompere la calma apparente ci pensa il sindacato di polizia penitenziaria, che parla di “emergenza nazionale”. Aldo Di Giacomo, segretario generale, snocciola cifre inquietanti: «Siamo al 700% in più di evasioni rispetto agli anni precedenti al 2023. Solo quest’anno siamo già a 340 casi». E non si tratta di fughe rocambolesche tra lenzuola e grate segate: sono evasioni su permesso. Concesse dallo Stato, per buona condotta, per motivi di lavoro, per studio. Una libertà temporanea che troppo spesso diventa definitiva.

L’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario consente ai detenuti di uscire dal carcere per attività rieducative. Ma è proprio questo il punto: la rieducazione, quando manca un vero percorso di controllo e responsabilizzazione, resta solo un’illusione. «Siamo davanti a un uso disinvolto di norme pensate per il reinserimento, non per premiare chi non ha ancora dato prova di alcun cambiamento reale», denuncia Di Giacomo. Il caso Cavallari non è l’unico. E non è nemmeno il peggiore.

Basti ricordare Salvatore De Maria, uscito in permesso lavoro, evaso e autore di un nuovo femminicidio prima di togliersi la vita. Una vicenda che aveva scosso l’opinione pubblica, ma che è stata rapidamente archiviata nella memoria collettiva. «È come se avessimo deciso di non imparare nulla dagli errori – prosegue il sindacalista –. Si continua a elargire fiducia a chi l’ha già tradita, mettendo a rischio la sicurezza di tutti».

La realtà delle carceri italiane è complicata, sovraffollata, con personale ridotto all’osso. Eppure, l’unica risposta sistemica resta quella del “premio”. C’è chi lo chiama umanità, chi civiltà giuridica. Ma la verità è che un sistema che permette a 340 persone l’anno di evadere senza neanche scavalcare un muro, è un sistema che ha fallito. E la responsabilità non è solo dei detenuti che si dileguano: è di chi consente loro di farlo.

Intanto, Cavallari è ancora in fuga. Ha studiato le leggi e ha trovato il modo più semplice per aggirarle: bastava non tornare. Ha dimostrato che il confine tra diritto e impunità è sottile, quando a gestirlo sono regole senza vigilanza. E ha sollevato una questione che nessuno vuole affrontare: quanto deve valere, oggi, la parola “rieducazione”? E soprattutto: a che prezzo per la collettività?

Se domani un altro detenuto dovesse approfittare di un permesso per compiere un reato, ci si scandalizzerà. Si griderà allo scandalo, si invocheranno riforme. Ma solo per qualche giorno. Poi tutto tornerà come prima. Fino al prossimo caso.

Perché in Italia, evidentemente, l’unica cosa che non evade mai è la responsabilità.