Il “rinascimento” annunciato negli ultimi anni dal principe ereditario Mohammed bin Salman non arresta la repressione giudiziaria più dura del Medio Oriente. Per il secondo anno consecutivo l’Arabia Saudita ha superato il proprio record in materia di pena di morte, collocandosi al terzo posto al mondo per numero di esecuzioni dopo Cina e Iran. Secondo i dati diffusi dall’ong Reprieve, nel corso dell’anno nel regno sono state messe a morte almeno 347 persone, due in più rispetto alle 345 del 2024. Un dato che contrasta con la narrazione ufficiale di riforma e apertura e che continua invece a restituire l’immagine di un sistema punitivo rigidissimo, in cui la pena capitale rimane uno strumento centrale di controllo.
Una parte consistente dei condannati, riferisce Reprieve, è stata giustiziata per reati non letali legati alla droga, violazioni che le Nazioni Unite definiscono «incompatibili con le norme e gli standard internazionali». Tra le ultime vittime di queste sentenze figurano anche due cittadini pakistani. Il 16 dicembre è stato giustiziato Issam al-Shazly, pescatore egiziano arrestato nel 2021 nelle acque territoriali saudite che aveva dichiarato di essere stato costretto a contrabbandare droga. Il 20 ottobre è toccato ad Abdullah al-Derazi, 28 anni, arrestato nel 2014 per aver partecipato a proteste di piazza e indicato come il detenuto numero 300 dell’anno a essere ucciso. Storia simile per Jalal al-Labbad, 23 anni, che aveva perso la vita il 21 agosto: era stato arrestato quando ne aveva soltanto 15 anni, anche lui per aver partecipato a manifestazioni.
Molti di questi casi sono stati inquadrati dalle autorità saudite sotto l’etichetta del “terrorismo”, una formula che i tribunali sauditi hanno applicato in diverse circostanze, soprattutto nei confronti di oppositori politici, attivisti, partecipanti a proteste o figure pubbliche percepite come critiche verso il regime. Tra gli episodi che hanno avuto maggiore eco internazionale c’è l’esecuzione del giornalista Turki al Jasser, impiccato il 15 giugno dopo aver trascorso sette anni in carcere. Ufficialmente le accuse erano «terrorismo» e «tradimento», ma secondo i gruppi per i diritti umani il vero motivo dell’arresto e, infine, della condanna a morte sarebbe legato ad alcuni post pubblicati su X in cui denunciava presunti casi di corruzione all’interno del regno
Il quadro descritto dalle organizzazioni per i diritti umani è quello di un sistema penale che agisce con margini amplissimi e scarsa possibilità di contestazione, in un contesto che vede crescere la frequenza e la durezza delle punizioni. Reprieve parla apertamente di impunità e di una gestione della giustizia che finisce per colpire anche chi appartiene alle fasce più fragili della popolazione. «L’Arabia Saudita ora opera nella più totale impunità, con una repressione brutale e arbitraria che coinvolge persone innocenti che vivono ai margini della società», ha dichiarato Jeed Basyouni, responsabile dell’organizzazione per il Medio Oriente e il Nord Africa. Secondo l’ong la tortura e le confessioni forzate sarebbero ormai «endemiche» nel sistema giudiziario penale del regno.
La critica di Reprieve non si ferma alla sola dinamica giudiziaria, ma allarga lo sguardo al messaggio politico e sociale che, secondo l’organizzazione, il regime intende trasmettere attraverso il ricorso costante alla pena di morte. «Sembra quasi che non importi loro chi giustiziano, purché trasmettano alla società il messaggio che esiste una politica di tolleranza zero su qualsiasi argomento di cui parlino, che si tratti di proteste, libertà di espressione o droga», ha aggiunto Basyouni. Le esecuzioni e la loro frequenza, secondo questa lettura, diventano quindi non solo uno strumento punitivo, ma anche una forma di deterrenza e di controllo sulla società.
Nel 2017, quando Mohammed bin Salman divenne principe ereditario, aveva annunciato la volontà di portare l’Arabia Saudita nel XXI secolo, allentando alcune rigidità sociali e costruendo l’immagine di un Paese impegnato in una trasformazione economica e culturale profonda. Alcuni cambiamenti sono effettivamente arrivati: la polizia religiosa è stata rimossa dalle strade e le donne possono finalmente guidare. Ma le organizzazioni internazionali continuano a descrivere un quadro dei diritti umani gravemente compromesso, segnato da arresti, condanne durissime, limitazione della libertà di espressione e uso sistematico della pena capitale.
Il confronto tra modernizzazione economica e repressione politica resta quindi uno dei nodi centrali della fase attuale del regno saudita. Da un lato grandi progetti di sviluppo, investimenti, apertura all’intrattenimento e al turismo, dall’altro un apparato repressivo che continua a utilizzare la pena di morte come strumento strutturale di governo e controllo. Le 347 esecuzioni registrate quest’anno rappresentano, in questo senso, un dato che pesa sul presente e sull’immagine internazionale dell’Arabia Saudita, segnando un nuovo record che, secondo le ong, rende ancora più evidenti le contraddizioni tra proclamata modernità e una realtà giudiziaria che resta tra le più dure al mondo.







