Certe serate restano impresse per come suonano. Altre, per quello che riescono a dire. Quella di Bruce Springsteen a San Siro, invece, resterà impressa per entrambe le cose. In un caldo tramonto milanese, con 58mila spettatori pronti a cantare ogni parola, il Boss è salito sul palco con l’aria austera dei giorni importanti. Camicia, gilet, cravatta: abiti insoliti per un rocker, ma coerenti con il tono della serata. Perché stavolta, oltre alla musica, c’era qualcosa di urgente da raccontare.
Non è la prima volta che Springsteen prende posizione. Ma mai come in questa tappa italiana del suo tour mondiale ha deciso di farlo così chiaramente. «Benvenuti nel tour della terra della speranza e dei sogni», ha detto. Ma non era solo un saluto: era l’inizio di un discorso destinato a scuotere. E per farsi capire da tutti, il suo messaggio è stato proiettato in italiano, frase per frase. Nessuna ambiguità, nessuna metafora da decifrare: Bruce voleva parlare, e voleva che ogni parola fosse compresa.
«L’America che amo, quella di cui ho scritto per cinquant’anni, è oggi nelle mani di un’amministrazione corrotta e traditrice». L’attacco a Donald Trump è diretto, senza filtri. Un’accusa netta, rivolta non solo al singolo ma al clima culturale e politico che si respira negli Stati Uniti. Springsteen lo definisce un “governo inadeguato”, e non si limita a etichettarlo. Elenca, con calma e precisione, quello che ritiene essere il vero pericolo: la normalizzazione dell’autoritarismo.
Il concerto, a quel punto, prende un’altra piega. Non è più solo un’esibizione, ma una chiamata collettiva alla responsabilità. «Quando le condizioni di un Paese sono mature per un demagogo, puoi scommettere che si presenterà», ha detto, prima di attaccare Rainmaker. Poi, prima di Long Walk Home, ha parlato di una “preghiera per il mio Paese”, lasciando che il silenzio si posasse per un attimo sullo stadio.
Ma il momento più intenso è arrivato prima di House of a Thousand Guitars. Springsteen ha abbassato la chitarra, si è fatto serio. «Ho trascorso la mia vita cantando del mio Paese», ha detto. «Ma oggi accadono cose che stanno alterando la natura stessa della nostra democrazia». E qui l’elenco si è fatto pesante come un atto d’accusa: repressione della libertà di parola, abbandono dei più fragili, smantellamento dei diritti civili, persecuzioni arbitrarie, complicità con i dittatori. Tutto detto, chiaramente, con la calma di chi non ha bisogno di urlare per colpire.
Non ha risparmiato nemmeno i parlamentari, accusandoli di vigliaccheria: «La maggior parte dei nostri rappresentanti non è riuscita a difendere il popolo dagli abusi di un presidente inadatto». E poi la frase più dura: «Non hanno idea di cosa significhi essere profondamente americani».
In un mondo dove le star spesso evitano il confronto, il Boss sceglie l’opposto. Si espone, prende posizione, rischia. Ma lo fa con la credibilità di chi ha sempre cantato i margini, i dimenticati, i sogni spezzati. Eppure, anche nel buio più fitto, Springsteen riesce a trovare una scintilla. «L’America di cui vi ho parlato per cinquant’anni è reale. Sopravviveremo anche a questo momento». E poi, citando James Baldwin, lo scrittore afroamericano che ha raccontato il razzismo e l’identità: «In questo mondo non c’è tutta l’umanità che si vorrebbe, ma ce n’è abbastanza».
Da quel momento, il concerto è decollato. The Rising, Badlands, Born to Run, Dancing in the Dark hanno restituito al pubblico il senso di una festa. Ma non una festa fine a se stessa: una festa consapevole, vibrante, collettiva. E l’ultimo brano, Chimes of Freedom di Bob Dylan, non è stato scelto a caso. È un inno alla libertà cantato da chi sa che la libertà va difesa, ogni giorno.
«Grazie per avermi ascoltato. Grazie», ha detto Bruce prima di congedarsi, visibilmente emozionato. Senza effetti speciali, senza proclami. Solo con la forza della sua voce e della sua coerenza. E con quella capacità rara di farci sentire, anche solo per due ore, parte di qualcosa di più grande.
A San Siro, ieri sera, non si è solo cantato. Si è resistito. E questo Bruce Springsteen, ancora una volta, l’ha fatto meglio di chiunque altro.