Caso Bibbiano, il processo sgonfia l’inchiesta: tre condanne minori, undici assoluzioni e il teorema crolla in tribunale

È una sentenza che chiude – almeno per ora – una delle pagine giudiziarie più discusse e divisive degli ultimi anni. Il processo “Angeli e Demoni”, nato dall’inchiesta sui presunti affidi illeciti nella Val d’Enza e ribattezzato dai media Caso Bibbiano, si è concluso in primo grado con un verdetto che ridimensiona, se non annulla, l’impianto accusatorio originario.

Le immagini di bambini allontanati dalle famiglie, le intercettazioni, le accuse di manipolazione della memoria, la presunta macchina dei servizi sociali deviati: tutto questo è stato per mesi raccontato come un sistema radicato e spietato. Ma la sentenza del collegio giudicante del tribunale di Reggio Emilia dice tutt’altro.

Su 14 imputati, solo tre sono stati condannati. E con pene lievi. La più alta – due anni – è toccata a Federica Anghinolfi, ex responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza, condannata per falso ideologico in relazione a due procedimenti di allontanamento di minori. Niente associazione a delinquere, niente regia occulta tra terapeuti e funzionari pubblici. Le accuse più gravi sono state spazzate via.

Condannati anche l’assistente sociale Francesco Monopoli (un anno e otto mesi) e la neuropsichiatra Flaviana Murru (cinque mesi), anche loro con pena sospesa. Per tutti gli altri imputati – psicologi, assistenti, educatori, affidatari – è arrivata l’assoluzione, in molti casi con formula piena: “perché il fatto non sussiste”. Alcuni capi d’imputazione sono stati dichiarati prescritti.

L’aula è esplosa in un lungo silenzio dopo la lettura della sentenza. Qualche abbraccio, sguardi che si incrociano, sospiri liberatori. Dopo cinque anni di tensioni, l’inchiesta crolla al primo vaglio processuale. E con essa crolla anche una narrazione che ha alimentato polemiche feroci e spaccature politiche profonde.

Per la procura di Reggio Emilia, che aveva chiesto complessivamente 70 anni di carcere per gli imputati, si tratta di una sonora battuta d’arresto. La pm Valentina Salvi aveva coordinato le indagini dei carabinieri sulla base di una tesi inquietante: operatori sociali e terapeuti avrebbero manipolato le relazioni sui minori per provocarne l’allontanamento e collocarli in affido presso famiglie compiacenti, creando a tavolino presunti abusi.

Una teoria che aveva scatenato indignazione pubblica, titoli di giornali, interrogazioni parlamentari. Ma che non ha retto alla prova dei fatti in aula. Il processo ha preso un’altra direzione: gran parte dei racconti accusatori si è dimostrata fragile, le prove non sufficienti, la struttura del presunto “sistema” si è rivelata inconsistente.

La presidente del collegio giudicante, Sarah Iusto, con le colleghe Michela Caputo e Francesca Piergallini, ha pronunciato una sentenza che rimette in discussione l’intera impalcatura del caso. Il procedimento, celebrato con rito ordinario, ha percorso un’inchiesta che ha coinvolto 14 imputati e oltre cento capi d’imputazione.

Il verdetto lascia l’amaro in bocca a chi, in questi anni, ha costruito intorno al “caso Bibbiano” un simbolo di decadenza morale e istituzionale. E impone una riflessione a più livelli: sul ruolo dei media, sulle strumentalizzazioni politiche, sulla delicatezza del tema degli affidi e sulla credibilità delle istituzioni coinvolte.

È una vicenda ancora aperta: la Procura potrebbe ricorrere in appello, e non si esclude che alcuni casi specifici vengano riesaminati. Ma la fotografia che esce da questa sentenza è chiara: il sistema descritto nell’inchiesta non ha trovato riscontro in aula. E il clamore di ieri, oggi, sembra ingigantito dalla distanza tra le accuse e i fatti accertati.

Nel frattempo, la vita degli imputati – molti dei quali operatori che per anni hanno lavorato con i minori – è stata stravolta. E anche questo è un dato che resterà, a prescindere da ogni ulteriore grado di giudizio.