Cecchini italiani a Sarajevo: l’ex 007 bosniaco accusa il Sismi, «sapevano dei turisti della morte»

Sarajevo

Ci sono crimini che neppure il tempo riesce a seppellire. Uno di questi riaffiora oggi dalle macerie morali della guerra di Bosnia: il cosiddetto Safari di Sarajevo, l’abominio di uomini che, tra il 1993 e il 1995, pagavano per salire sulle colline della città assediata e sparare sui civili come fossero bersagli da tiro. Tra quei cecchini ci sarebbero anche italiani. E secondo un ex agente segreto bosniaco, il Sismi, allora servizio segreto militare italiano, ne era al corrente.

E. S., nome in codice di un 007 che operava per l’intelligence della Bosnia-Erzegovina, ha raccontato ai magistrati milanesi di aver informato Roma già all’inizio del 1994. «Abbiamo saputo del Safari alla fine del 1993 – dichiara –. All’inizio del 1994 abbiamo avvisato il Sismi. Due mesi dopo ci risposero: “Abbiamo scoperto che il Safari parte da Trieste, l’abbiamo interrotto e non avrà più luogo”». Parole che oggi pesano come piombo, perché implicano che lo Stato italiano conosceva il punto di partenza dei “turisti della morte” e che l’operazione non venne mai denunciata.

Nella ricostruzione dell’ex agente, un documento del Sismi confermerebbe l’esistenza di quella base triestina. Dopo quel carteggio, però, tutto si spense. «Non abbiamo più avuto notizie né ottenuto i nomi dei cacciatori o degli organizzatori», aggiunge E. S., che figura in cima alla lista dei testimoni che la procura di Milano – con il pm Alessandro Gobbis – si prepara a convocare. L’inchiesta, formalmente aperta per omicidio aggravato dalla crudeltà e dai motivi abietti, punta a identificare i connazionali che parteciparono alla mattanza.

Secondo le prime ricostruzioni, erano almeno cinque ma potrebbero essere molti di più. Ex imprenditori, medici, appassionati di armi, ex militari, uomini tra i quaranta e i cinquant’anni, con il vizio della caccia e il gusto per il brivido. Partivano il venerdì da Milano, Torino, o dal Nord-Est, arrivavano a Trieste, poi volavano a Belgrado con la compagnia serba Aviogenex. Da lì, via elicottero o su camion militari, raggiungevano le alture da cui si dominava la capitale bosniaca. Pagavano somme oggi equivalenti a 80-100 mila euro per la “battuta di caccia”, protetti da ufficiali corrotti dell’esercito serbo.

Le accuse trovano eco nel documentario Sarajevo Safari del regista sloveno Miran Zupanic, che per primo raccontò l’esistenza di un mercato del “turismo di guerra” in Bosnia. «In certi casi – conferma lo 007 bosniaco – gli italiani si mescolavano ai convogli umanitari partiti dal Milanese, fingendosi volontari. Dietro i camion di aiuti, portavano denaro e armi». Una rete di contatti che si muoveva nel buio, con appoggi locali e coperture logistiche.

A trent’anni dai fatti, l’eco di quella follia torna a scuotere Sarajevo. «Ancora oggi – racconta E. S. – i testimoni sono sotto pressione. Un pilota che trasportava i “cacciatori” da Belgrado ha rinunciato a parlare dopo che la Bia, l’intelligence serba, ha minacciato la sua famiglia». Nonostante i rischi, l’ex sindaca Benjamina Karić ha presentato ad agosto una denuncia penale alla procura di Milano tramite l’ambasciata d’Italia, chiedendo che Sarajevo venga riconosciuta parte offesa. «Vogliamo giustizia – ha dichiarato –. Secondo un ufficiale sloveno, per sparare a un bambino si pagava di più. Ricchi stranieri amanti di imprese disumane hanno trasformato la nostra tragedia in un gioco».

La testimonianza di Karić rafforza il lavoro della procura milanese, sostenuta dallo scrittore Ezio Gavazzeni e dagli avvocati Nicola Brigida e Guido Salvini, che da mesi ricostruiscono le rotte e i nomi di chi, tra il ‘93 e il ‘95, partiva dal Nord Italia per la Bosnia. Gli inquirenti e i carabinieri del Ros stanno cercando di recuperare vecchi elenchi di passeggeri e tracce finanziarie, nella speranza di trovare prove dirette. Alcuni indizi portano a circoli di tiro, club di cacciatori e ambienti dell’estrema destra, dove la guerra balcanica veniva mitizzata come terreno d’onore e sfida virile.

Oggi, quella retorica si sbriciola davanti alla realtà di un massacro di 11.541 civili, di cui 1.601 bambini, e oltre 60 mila feriti. «Se il Sismi sapeva, se davvero esiste quel documento di Trieste, non potremo più parlare solo di follia individuale – osserva una fonte giudiziaria –. Dovremo chiederci chi coprì, chi tacque, chi guardò dall’altra parte».

Sarajevo, ferita e fiera, aspetta che la verità venga finalmente detta. «Un’intera squadra di persone instancabili lotta perché la denuncia non resti lettera morta», ha ribadito l’ex sindaca. E mentre la magistratura italiana riapre i dossier, resta l’immagine più insopportabile: quella di uomini ben nutriti, partiti dal cuore dell’Europa, che pagavano per uccidere bambini affamati. Un safari dell’orrore che nessun documento potrà più cancellare.