Clientelismo. Quante volte l’abbiamo sentito nominare, come un’ombra che si allunga sulle urne elettorali, un’abitudine radicata nel nostro tessuto sociale che sembra più forte di qualsiasi riforma. Parlo da chi ha visto, in anni di osservazione e studio, come questo fenomeno non sia solo un vizio politico, ma un vero e proprio meccanismo antropologico, un modo di relazionarsi ereditato da generazioni, che lega individui e comunità in catene di reciproca dipendenza. Adesso, con le elezioni regionali alle porte, è il momento di guardarlo in faccia, perché ci fa rischiare di ipotecare il nostro futuro.
Dove la politica dovrebbe essere un ponte verso il bene comune, il clientelismo la trasforma in un mercato di favori personali. Si tratta di un retaggio culturale profondo, radicato nelle dinamiche di potere asimmetriche che l’antropologia sociale descrive come “patron-client relationships”.
Ad esempio, studi come quelli di Edward Banfield negli anni ’50, nel suo “Le basi morali della società” sull’isolamento lucano, ci mostrano come nel Mezzogiorno – ma non solo lì – la cultura dell’”amoral familism” abbia favorito un ethos in cui il benessere individuale prevale sul collettivo, spingendo a scambi clientelari per sopravvivenza. Lo storico della filosofia e meridionalista Mario Alcaro, ci ricordava spesso nelle sue lezioni all’UniCal, di Banfield che parlava di famiglie che massimizzano il proprio interesse a breve termine, ignorando il lungo periodo: un seme piantato nel dopoguerra, che germoglia ancora oggi in voti scambiati per un posto di lavoro, un’assunzione al comune o un contributo per la casa.
E non è teoria astratta, perché ricerche recenti, come quelle pubblicate su “Quaderni di Sociologia” nel 2020, confermano che questa “crisi del clientelismo di partito” si è evoluta in “piccole rappresentanze territoriali”, dove i politici locali riempiono il vuoto lasciato dai grandi partiti con favori amministrativi, soprattutto in aree povere del Sud, dove la disoccupazione tocca picchi del 20-25% secondo Istat 2024.
Guardiamo ai dati reali, freschi di questi anni. Nel 2024, durante le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Umbria (anticipate per vari motivi), l’affluenza è crollata al 46% in Liguria, come riportato dai dati dal portale Eligendo del Ministero dell’Interno, un calo del 7% rispetto al 2020, proprio mentre scandali di clientelismo esplodevano. Pensiamo al caso calabrese. Nel 2023, indagini giudiziarie hanno portato a 20 arresti per un sistema di assunzioni pilotate in sanità e enti locali, con voti comprati in cambio di raccomandazioni – un classico del clientelismo meridionale, dove, secondo un report Transparency International 2024, l’Italia perde 50 miliardi di euro annui in corruzione e favoritismi, con il Sud che assorbe il 60% dei casi.
Dati Istat del primo semestre 2025 mostrano che nelle regioni del Sud, il 35% dei cittadini percepisce il clientelismo come “normale” per accedere a servizi pubblici, un’”eredità” che antropologi della Società Italiana di Antropologia Culturale (SIAC) descrivono come “regolazione sociale” in contesti di scarsità, dove il politico diventa “padrino” moderno, distribuendo risorse come un antico capo tribù. Si tratta di una forma di reciprocità asimmetrica, studiata da antropologi come Marcel Mauss nei suoi saggi sul dono, ma distorta in Italia dal patrimonio storico di feudalismo e protezionismo post-unitario. Nel Nord, come in Veneto o Toscana, si manifesta in modo più sottile – appalti truccati o favoritismi in zone industriali – ma il pattern è lo stesso. Il voto non è libero, è vincolato da un debito morale. Uno studio recente del 2023 su “Polis” analizza come, nelle elezioni regionali 2020 (post-pandemia), il clientelismo abbia influenzato il 15-20% dei voti in regioni come Puglia e Calabria, con liste civiche usate come “veicoli” per distribuire benefici locali. E oggi, con l’inflazione al 2,5% e la crisi energetica del 2025, questi meccanismi si rafforzano: la gente, stanca di promesse vuote, si affida al “sistema” per un posto di lavoro o un aiuto immediato.
Ma io mi appassiono, sì, perché credo che possiamo spezzare questa catena. Le prossime elezioni regionali sono un’opportunità per evolvere la nostra cultura politica. Immaginate se, invece di voti comprati, si potessero scegliere programmi trasparenti, con controlli rigorosi su appalti e assunzioni. Dati Eurobarometro 2025 mostrano che il 70% degli italiani under 35 rifiuta il clientelismo, optando per partiti anti-corruzione – un segnale di cambiamento generazionale.
Andiamo a votare con gli occhi aperti. Non lasciamo che il clientelismo, questa reliquia antropologica del nostro passato, rubi il futuro alle nuove generazioni. Esigiamo trasparenza, denunciamo gli abusi – solo così trasformeremo la nostra società da rete di debiti in comunità equa. Il nostro Paese merita di più: un voto libero.
Di Gianfranco Donadio, documentarista