Dazi americani, l’effetto Trump travolge il Made in Italy: export in caduta del 21% negli Usa

Dazi 15% USA UE

Per il Made in Italy il sogno americano si è trasformato in un incubo. I nuovi dazi decisi da Donald Trump, entrati in vigore ad agosto, hanno prodotto in poche settimane un crollo del 21,2% delle esportazioni verso gli Stati Uniti. È la prima conseguenza tangibile della politica protezionista del presidente americano, che ha scelto di colpire anche i partner europei nel nome della “difesa dell’industria nazionale”.

I dati Istat fotografano un agosto nero: le spedizioni complessive verso i Paesi extra Ue calano dell’8,1%, ma la vera frana arriva oltreoceano. Il comparto dei macchinari industriali, cuore pulsante del manifatturiero italiano, registra un tonfo del 16,7%. Segue l’alimentare con -13%, mentre tessile, moda e arredamento perdono quasi il 10%.

«Il problema non è solo il costo dei dazi, ma la giungla di nuove regole che li accompagna», spiega Bruno Bettelli, presidente di Federmacchine. «Ogni fornitore deve certificare la provenienza di acciaio e alluminio, anche se la materia prima è stata acquistata anni fa. Senza documenti completi, si rischia di pagare una doppia tariffa fino al 50% del valore del prodotto».

Un groviglio normativo che rallenta porti e dogane, blocca le forniture e moltiplica i costi amministrativi. Gli esportatori parlano di “burocrazia paralizzante”: spedizioni ferme per settimane in attesa di controlli, moduli che cambiano di continuo, richieste di documenti impossibili da reperire.

Il calo colpisce trasversalmente tutti i settori. L’industria del packaging, che vale 1,2 miliardi di export annuo negli Usa, denuncia ritardi “mai visti prima”. I costruttori di macchine utensili stimano perdite fino al 20% nei prossimi trimestri. Anche il lusso e l’agroalimentare non sorridono più: vino, formaggi e pasta pagano la guerra commerciale più di chiunque altro.

L’Unione Italiana Vini ha registrato un taglio medio dei prezzi del 20,5% rispetto al 2024. «Stiamo assorbendo noi il peso dei dazi per non perdere i clienti americani», spiega un produttore veneto. «Chi esportava bottiglie da 10 euro ora ne ricava 8. Ma se aumentassimo i listini, gli importatori cambierebbero subito fornitore».

Qualche segnale di ripresa arriva dal Regno Unito (+5%) e dalla Svizzera (+4,7%), ma non basta a compensare le perdite d’Oltreoceano. Nel frattempo, la Turchia – altro partner chiave – ha ridotto del 26% le importazioni di prodotti italiani.

Il saldo commerciale resta positivo (1,8 miliardi di euro), ma in netto calo rispetto ai 2,8 miliardi di un anno fa. «Un disastro annunciato», commenta il vicepresidente di Confartigianato, Roberto Metti. «Trump aveva promesso il ritorno al protezionismo e ora lo vediamo: chi esporta viene punito due volte, dai costi doganali e dalle incertezze normative».

Il governo Meloni cerca di mantenere toni diplomatici. I rapporti personali tra la premier e il presidente americano restano buoni, ma l’irritazione delle imprese cresce. Da Palazzo Chigi trapela “preoccupazione” per l’impatto sulle filiere strategiche, e si chiede a Bruxelles di «valutare una risposta coordinata».

La Commissione europea studia infatti contromisure, ma senza scivolare in una nuova guerra dei dazi. L’obiettivo è aprire un tavolo tecnico con Washington per escludere i prodotti a più alta integrazione europea, come macchinari e automotive, dal meccanismo delle doppie tariffe.

Nel frattempo, alcune aziende italiane valutano di aprire stabilimenti negli Stati Uniti per aggirare le barriere. «Non possiamo permetterci di perdere il nostro primo mercato extraeuropeo», dice un imprenditore emiliano del settore metalmeccanico. «Meglio produrre lì che farsi massacrare dalle dogane».

Tra gli industriali cresce il timore che la stagione dei dazi duri più a lungo del previsto. Trump, che ha già annunciato nuovi aumenti per il 2026, si è vantato di aver “liberato l’America dalla concorrenza sleale europea”. Ma il prezzo lo sta pagando l’Italia, che nel 2024 aveva esportato negli Usa beni per oltre 70 miliardi di euro.

E mentre a Washington si discute di “patriottismo economico”, qui da noi si parla di aziende in difficoltà, ordini dimezzati e contratti congelati. Il protezionismo, insomma, ha un costo. E non lo pagano solo i dazi: lo pagano i lavoratori, i produttori e un marchio – Made in Italy – che rischia di diventare vittima di una guerra non sua.